BIAS, EURISTICHE, ERRORI COGNITIVI
Come gli schemi mentali di ciascuno influenzano le decisioni e talvolta generano errori irrazionali.
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GLI SPUNTI.
In questo approfondimento voglio sviluppare una personale riflessione sulla base degli spunti offerti dagli interventi svolti al corso “La Psicologia del Giudicare” da parte di quattro relatori:
– Dr. Leslie Ellis, Ph. D. Social Psicology alla University of Illinois – Chicago, la quale ha rivelato qualche trucco del suo mestiere quale Director presso DecisionQuest, impresa statunitense che si occupa di prestare consulenza ai team di legali circa il miglior approccio strategico-psicologico da adottare in un determinato processo (ad esempio, in base al luogo, alla composizione della giuria, al sentire politico-sociale del momento, eccetera);
– Prof. Patrizia Catellani, Università Cattolica di Milano, ordinario di Psicologia Sociale (con insegnamento anche nei corsi di Psicologia Politica e Alimentazione e Stili di Vita), la quale ha introdotto la platea ai fondamenti della propria disciplina, con un focus sui processi identitari;
– Avv. Carlo Bona, Professore a contratto presso l’Università di Trento con attività didattica nella materia “Diritto Civile e Scienze Cognitive” (corso che in maniera del tutto originale interseca i due campi di studi), il quale ha approfondito come bias (costrutti fondati su percezioni errate), euristiche (scorciatoie mentali che prevengono un esame approfondito) ed errori cognitivi in generale possano manifestarsi sovente in procedimenti giudiziari complessi quali sono quelli di separazione e divorzio;
– Avv. Alberto Guariso, giuslavorista nonché esperto e Professore a contratto incaricato del corso di “Diritto Antidiscriminatorio” presso l’Università di Brescia, il quale ha illustrato come il diritto tanto astratto quanto pratico si rapporti col concetto di identità;
COSA CI MUOVE VERSO LA DECISIONE.
– Chi decide quel che decidiamo? –
Ho sempre trovato interessante (al pari di molti altri prima di me) interrogarmi su una certa questione. Cioè quanto il nostro decidere è, per l’appunto, “nostro”, perché deliberatamente voluto-ponderato (e si presume conscio), e quanto è piuttosto indotto da forze o comunque condizionamenti (verosimilmente inconsci, quali i bias) su cui non esercitiamo un vero e proprio controllo? Il problema è complesso, perché logicamente impone innanzitutto la definizione del concetto stesso di “volontà”. Poi vengono tutti i dubbi di contorno: ad esempio, la distinzione tra voluto e involontario è quantitativa o qualitativa? E’ biologico-anatomica (ad esempio, passando per quali impulsi accedono a certe aree del cervello e quali no) o è più sfumata ed impalpabile? Ancora, una volta definito il confine esso è percepibile-misurabile in maniera oggettiva nel singolo caso concreto o resta un concetto teorico da manuale universitario?
Se è vero che si tratta di un interrogativo spinoso anche per chi ha orientato il proprio intero percorso di studi in quella direzione, allora in questo tema non potrò certo addentrarmi più di tanto io, Avvocato, con questo singolo articolo. Però vorrei almeno segnalare che il problema il diritto (soprattutto penale) se lo pone eccome già da tempo, anche se di solito lo supera provando a tagliare la testa al toro e a limitare al massimo le incertezze applicative. Ad esempio, posto che sembrava troppo facile per gli imputati cavarsela con la giustificazione «ero momentaneamente fuori di me, ma normalmente non sono così» (argomento che a rigore dovrebbe precludere qualunque pena, dovendo essa tendere ad una possibile rieducazione, v. art. 27, c. 3 Cost.) è stato introdotto il tranchant art. 90 c.p. per cui “Gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità“. Partita chiusa quindi anche se l’esperto confermasse che si trattò di un raptus del tutto eccezionale (al più si modulerà l’entità della pena). Infatti in generale al diritto codicistico non piace molto la psicologia, vista con sospetto quale potenziale modo per allentare con valutazioni non oggettive il rigore e la certezza che pretendono di avere le norme ed il processo. Al più ci si affiderà alla psichiatria e/o alla neurologia, cioè alla medicina, che dovrebbe fondare le proprie conoscenze su misurazioni (possibilmente strumentali) ed esperimenti condotti con metodo scientifico e replicabili.
– Un modello: cognizione, emozione e motivazione –
Però alla fine molti istituti giuridici non possono operare se non attingendo (volenti o nolenti) da “saperi“ esterni al diritto e magari non dotati della solidità-scientificità delle c.d. hard knowledges. Tra questi milita in particolare la conoscenza della psiche e dei suoi disturbi (si pensi alla valutazione della capacita di intendere e di volere, della capacità a delinquere, del grado d’invalidità residuante dal trauma psicologico, eccetera).
Inoltre, in ogni momento del processo ci si può trovare a dover valutare per i più svariati fini, in senso lato, cosa ha inteso fare o dire e/o cosa ha percepito un determinato soggetto (ad esempio: quell’affermazione vale ed era voluta come vera e propria confessione giudiziale o no? Quel testimone è attendibile? Quando il testimone dice “colpito” intende “spinto”, “preso a pugni”, “schiaffeggiato” o cosa? Eccetera). Sono interrogativi (sussistono bias, euristiche, errori cognitivi?) che non competono alla medicina e per cui la legge non prescrive di affidarsi alla perizia medico-legale.
Ma allora per rispondere meglio a tali dubbi qualche minima competenza di carattere psicologico (utilizzata con grande umiltà) non può che aiutare il giurista. Coerentemente crescono tra gli studiosi i consensi circa l‘idea che gli strumenti del giurista e del cognitivista debbano integrarsi.
Perciò anche nell’approcciare il processo può essere innanzitutto utile armarsi di un (per quanto basilare) modello teorico, quale può esser quello secondo cui chiunque prenda una decisione (reo che commette il crimine, testimone che rende la deposizione, Giudice che giudica, eccetera) lo fa sospinto da tre fattori tra loro interdipendenti:
- cognizione -> decide in base a quali informazioni entrano nella sua mente e a come questa le processa;
- emozione -> la componente emotiva ha grande impatto, come sa chi si occupa di marketing;
- motivazione -> un buon motivo orienta l’ago della bussola nella direzione del decidere;
Già tenere a mente questo (cioè individuare il quadro cognitivo, emotivo e motivazionale di quella decisione) può aiutare a non gettarsi a capofitto in grossolani errori decisionali e ad essere più critici nel valutare sia le determinazioni altrui, sia i propri processi mentali.
– L’identità –
Tra gli aspetti che abbiamo voluto approfondire al corso vi è quello dell’identità. Potremmo definirla sia come un bisogno umano (individuale e di gruppo), sia come la rappresentazione tanto della propria immagine di sè derivante dall’appartenenza a uno o più gruppi sociali, quanto del valore che attribuiamo a ciò.
Perché è importante anche per il giurista? Lo è perché, benché in sè nient’affatto negativo (ad esempio il diritto antidiscriminatorio se ne avvale proprio per tutelare meglio i portatori di certe vulnerabilità), tale concetto può divenire uno tra i principali veicoli di stereotipi e pregiudizi che influenzano il processo decisionale portandolo ad esiti talvolta irrazionali. Dunque è opportuno conoscerne almeno la più basilare dinamica che potremmo esprimere secondo questo modello illustratoci al seminario.
L’agire umano tende ad avere tre motivazioni di fondo molto forti:
- padronanza-controllo -> sentire di avere il polso della realtà in cui ci troviamo;
- affiliazione -> soddisfare il bisogno di stare assieme, possibilmente con persone simili;
- autostima-valorizzazione di sè (e del proprio) -> bisogno di veder attribuito valore a sè stessi e a ciò di cui si è parte.
Quando non riusciamo a soddisfarle tendiamo a reagire con atteggiamenti potenzialmente negativi e pregiudizievoli per gli altri. In particolare più ci sentiamo carenti rispetto al primo ed al terzo bisogno e più è forte la tentazione di affiliarci a gruppi dai forti tratti identitari. Inoltre, si è visto che, in ogni caso, basta indurre nelle persone un’affiliazione anche minima (ad esempio, dividere i partecipanti al test tra coloro che preferiscono un’opera d’arte e coloro che preferiscono l’altra) affinché i soggetti mutino le proprie determinazioni favorendo gli appartenenti al medesimo gruppo (ad esempio, finiranno per distribuire con maggior favore per i membri del proprio gruppo una risorsa limitata).
L’identità si lega poi agli stereotipi, cioè alle credenze socialmente condivise che un gruppo abbia determinate caratteristiche e che chi (secondo noi) vi appartiene debba condividerle a propria volta. Tale dinamica è sensata finché aiuta la mente a non dover elaborare ogni volta da zero tutte le informazioni e implicazioni di un determinato contesto. Tuttavia lo stereotipo può ovviamente dar luogo anche ad esiti negativi. Ciò non solo nel senso di viziare il nostro processo valutativo con false informazioni, ma addirittura nel senso di poter indurre nell’altro comportamenti volti ad assecondare lo stereotipo (ad esempio, test sugli scolari dimostrano che indurre volontariamente nei loro schemi mentali lo stereotipo di maggior o minor bravura dei maschi o delle femmine in un dato esercizio prima di sottoporlo alla classe ne influenza poi di conseguenza l’esito).
Queste nozioni sono importanti non solo per leggere meglio i fatti oggetto di causa senza bias (ad esempio, individuare il “gruppo” che il testimone Tizio potrebbe più o meno consapevolmente essere indotto a favorire), ma anche per individuare e così eventualmente correggere valutazioni istintive basate su stereotipi nella mente stessa di chi deve decidere (ad esempio, io Giudice mi accorgo che, al di là delle prove, sto ritenendo più probabile che Tizio sia colpevole del reato violento perché lo associo ad un “gruppo” che reputo violento).
CONOSCI I TUOI BIAS.
– La “story” –
Il processo dovrebbe valutare i “fatti” e decidere sugli stessi. In senso stretto, però, non è mai così. Attenzione: non è un’invettiva contro chi giudica. Piuttosto è una constatazione su come funzionano i processi decisionali di chiunque. Infatti inevitabilmente il decidere passa sempre per la previa creazione nella nostra testa di una “storia”, di una narrazione, costruita solo in parte sulla base di quei fatti inequivocabili provati in Aula.
Ciò in quanto, innanzitutto, i pezzi mancanti di questa narrazione li creiamo noi stessi del tutto inconsciamente. Poi, comunque, pure le prove stesse tendiamo naturalmente a valutarle più per il loro significato (ad esempio, “Tizio ha subito un’aggressione brutale”) che per l’informazione oggettiva che ne deriva (ad esempio, “dalla perizia risultano ecchimosi nelle parti del corpo A, B e C ed una prognosi di x giorni”). Si pensi al caso in cui si debba stimare la capacità economica di un soggetto (ad esempio per una lite tributaria o per quantificare il suo obbligo di contribuzione alle spese famigliari). Se abbiamo l’informazione (oggettiva) che egli è proprietario di una BMW di grossa cilindrata è molto difficile che non partiamo con l’idea (significato soggettivo) che egli sia facoltoso. Tuttavia, approfondendo, potremmo scoprire che in realtà il valore di mercato di quell’auto usata la rende alla portata dei più!
Allora come si crea più di preciso questa “story”? Se non stiamo attenti, si forma riempiendo tutti i vuoti d’informazione ed attribuendo significati (nel senso suddetto) mediante bias ed euristiche. L’effetto di tali dinamiche risulta poi più intenso ed evidente in tutti quei casi in cui la legge pone dei paletti e dei criteri in qualche modo ampi ed elastici sulla cui base decidere. Nel diritto penale dovrebbero essere ridotti all’osso, ma in altri settori, come quello della crisi coniugale-famigliare, delle separazioni e dei divorzi, tutti gli esperti sono concordi nel ritenere che una certa apertura a criteri equitativi sia un bene. Quindi si tratterà di rendere il più possibile critica e razionale la determinazione che non può essere costretta a priori entro confini normativi rigidi e meramente algoritmici.
– Ragionamento veloce o lento –
E’ stato dimostrato che la mente decide al meglio laddove venga sottoposta ad un certo livello di stress (la “calma piatta” è a sua volta dannosa), ma a patto che non si arrivi a sfinirsi ed avendo a disposizione tempo sufficiente.
Cioè, superata una certa soglia, più siamo costretti a portare a termine il processo decisionale (e quello valutativo che vi sta alla base) in poco tempo ed in condizioni di stress e più la mente ricorrerà alle proprie “scorciatoie” piuttosto che ponderare criticamente. Così generarà con maggior frequenza e gravità errori cognitivi, nonché conseguenti decisioni errate.
Infatti in simili condizioni di scarsità di risorse mentali facciamo affidamento sul solo ragionamento rapido, cioè quello istintivo, che si basa sulle nostre esperienze pregresse e su schemi mentali consolidati (che per lo più restano inconsci) per trarre nel giro di un istante valutazioni e decisioni immediate. Questo tipo di ragionamento non è in sè un male. Ha un ruolo fondamentale nella sopravvivenza (ad esempio, individuare subito un pericolo e reagire) ma anche in certi tipi di decisioni che necessitano competenza tecnica (ad esempio, si è visto che i medici esperti dotati di solide routine mentali hanno un’alta percentuale di successo nel fornire una diagnosi rapida per patologie relativamente semplici sulla base della mera elencazione dei sintomi). Il fatto è che nel processo tale ragionamento istintivo dovrebbe essere sempre seguito ed eventualmente corretto ed arricchito da un secondo tipo di ponderazione.
Occorrerebbe cioè sempre rivalutare le informazioni ed i significati attribuiti di primo acchito riprocessandoli mediante un ragionamento critico, lento, metodico, che prenda coscienza dei possibili bias ed aggiusti di conseguenza gli esiti. Ciò è possibile, in particolare, adottando ausili quali l’utilizzo di schemi ad albero, di checklist, di aiuti visivi (ad esempio, se devo valutare una lite sui confini tengo d’occhio la mappa catastale), di schematizzazioni dei singoli elementi, dei collegamenti e dei passaggi che compongono ciascun oggetto di valutazione e decisione, nonché in generale imparando a conoscere sé stessi e le proprie caratteristiche cognitive. Inoltre, ove possibile, è d’aiuto confrontarsi con altre persone aventi schemi mentali diversi dai nostri (del resto lo stesso Legislatore ha opportunamente imposto che certe decisioni debbano essere collegiali).
Tutto ciò dovrebbe poi farci riflettere non solo sul nostro metodo come singoli decisori, ma anche sull’organizzazione stessa della macchina della Giustizia. Per dirne solo una, ad esempio, si è visto che a seconda del momento della giornata (e quindi della stanchezza accumulata) cambiano sensibilmente le decisioni dei Giudici su casi apparentemente analoghi. In particolare, ad inizio giornata la maggior disponibilità di energie mentali rende più disponibili a valutare ed assecondare richieste percepite come inusuali o che richiedono più ponderazione, invece a fine giornata prevale la conferma dello status quo.
– Il bias di conferma e l’euristica di disponibilità-
Ancora, la prevenzione degli errori cognitivi passa in particolar modo per la conoscenza dei bias in cui tendiamo ad incorrere. Uno dei più frequenti, potenti e pervasivi (anche nel processo) pare essere il bias di conferma.
In sostanza, la mente tende naturalmente a mantenere ai propri confini ciò che mal si concilia con la nostra preesistente visione della realtà. Perciò tutte le informazioni che logicamente dovrebbero portarci a mettere in dubbio una visione già formata penetreranno meno. Invece accoglieremo più facilmente (spostando l’attenzione su queste) le informazioni capaci di confermare lo schema mentale pregresso. Insomma, le nostre idee ed esperienze filtrano le informazioni che recepiamo (comprese le risultanze delle prove in corso di causa).
Anche in questo caso, si tratta sì di un bias, ma anche di un meccanismo spesso del tutto opportuno. Se un Giudice dovesse ogni volta rimettere in dubbio ogni propria visione della realtà (ad esempio, l’esistenza della forza di gravità) il giudizio sarebbe un’opera titanica. Anzi la legge stessa ammette che il giudizio possa basarsi (con le dovute cautele e precisazioni) sulle massime d’esperienza. Il problema è però quando tale dinamica non permette a dati oggettivamente meritevoli di essere considerati di persuaderci nel cambiare opinione.
Abbastanza simile è l’euristica della disponibilità. Si tratta del meccanismo (della scorciatoia mentale) per cui per trovare una spiegazione tendiamo a recuperare nella nostra mente innanzitutto l’immagine a cui più siamo avezzi, soprattutto per abitudine. Un tipico esempio è la visione che tendiamo ad avere dell’uomo e della donna nell’ambito della separazione e del divorzio. Cioè alla luce della storia sociale del nostro Paese (benché tale sentire comune stia ora un po’ cambiando) siamo abituati a vedere come economicamente più debole la donna e perciò si tende naturalmente a prospettarsi prima l’ipotesi che sia lei a veder realizzati i presupposti per ricevere un assegno dal coniuge piuttosto che il marito.
Insomma, in ogni valutazione in ambito processuale sarebbe opportuno sforzarsi a più riprese di chiedersi se sono state davvero valutate tutte le informazioni a disposizione e se sono state considerate nel loro valore oggettivo o piuttosto contaminandole con tali bias ed euristiche.
– Ancoraggio –
Un secondo potente bias che opera anche in ambito processuale è quello del c.d. “anchoring”. Ossia una volta che nella nostra mente si è fissato (o è stato volontariamente indotto il suo fissarsi) un determinato “valore di base” di un qualche parametro oggetto di valutazione allora poi tenderemo ad attenerci ad esso (o a discostarcene meno di quanto avremmo fatto altrimenti), anche se non è il frutto di una adeguata ponderazione.
Una dinamica simile si ha in vari ambiti anche extra-processuali. Ad esempio, se ricevo un’offerta di 100 per cedere un dato bene di cui non conosco il valore commerciale tenderò a pensare che il suo valore non sia inferiore. Così, anche al venir meno di tale offerta, tenderò a rifiutare altre successive offerte che non siano maggiori o uguali a 100. Il tutto benché magari l’offerta iniziale di 100 fosse sproporzionata in eccesso.
Ebbene, si è visto mediante test sottoposti a Giudici statunitensi chiamati a valutare i medesimi fatti di un’ipotetica causa che nel processo tale bias opera eccome. Infatti se con la domanda di risarcimento si chiedeva loro di liquidare “una somma significativa” senza però quantificarla essi tendevano a liquidare circa il 20% in meno rispetto a quando con la domanda di risarcimento si chiedeva una somma del tutto sproporzionata in eccesso ma quantificata numericamente. Addirittura in altri test ancora, sempre effettuati su analoghi candidati, si è visto che si poteva influenzare la loro decisione (di nuovo su ipotetici casi dove bisognava quantificare una somma) semplicemente mettendo loro in testa cifre che nulla avevano a che fare con la questione, ad esempio tratte da un tiro di dadi.
Ulteriormente, come è noto a tutti anche solo guardando le serie TV, nel processo penale alcune prove sono inammissibili perché raccolte in violazione di certe garanzie procedurali. Tuttavia è dimostrato che una volta che il Giudice ne abbia avuto contezza gli è di fatto impossibile escluderle dalla propria mente e dal processo decisionale. Questo pare emergere da una statistica effettuata su un campione statunitense, confrontando due gruppi di casi per il resto analoghi dove l’unica differenza era che in uno era stata resa nota una prova a carico dell’imputato benché dichiarata inammissibile e quindi in teoria da non doversi valutare nel decidere. Ecco, si è constatato che in tale gruppo di casi le condanne erano sensibilmente più frequenti, pur nella apparente identità del materiale probatorio ammissibile.
Se non altro si è visto che l’esperienza conta: i Giudici tendono infatti a contrastare più egregiamente questo bias di ancoraggio (formandosi mano a mano un’idea meno malleabile ed arbitraria di “normalità”) grazie all’esperienza e cioè sulla base dei tanti casi precedenti già visti.
– Qualche altra tendenza non razionalmente giustificata –
Può essere poi interessante passare in rassegna qualche altra tendenza che gli studiosi statunitensi ed in generale gli psicologi forensi hanno individuato nei protagonisti dei processi chiamati a vario titolo a prendere decisioni, a dimostrazione di quanto le dinamiche illustrate (così come eventuali altri bias) incidano sulle cause.
- I Giudici con un passato da difensori sono statisticamente meno duri nell’irrogare sanzioni;
- la maggiore vicinanza al periodo delle elezioni (negli USA esistono i Giudici eletti) pare correlata ad un maggior numero di decisioni apprezzate dall’elettorato di riferimento;
- il maggior numero di donne in giuria sembra correlato ad una maggiore percentuale di successo della donna che ha intentato causa per abusi/violenze sessuali/di genere;
- idem per quanto riguarda il numero di afroamericani in giuria rispetto a cause intentate per denunciate discriminazioni razziali contro un afroamericano;
- pare vi sia la naturale tendenza a considerare più onesto chi è di bell’aspetto e, in particolare, con tratti infantili;
- risulta meno persuasivo chi è di brutto aspetto o trasandato o dal fare brusco o “pasticcione”; però gioca contro anche la timidezza, poiché tende ad ottenere di più chi domanda con maggiore decisione e manifestando pretese elevate;
- la manifestazione di sofferenza emotiva rende più difficile per chi deve decidere irrogare a quella persona maggiore sofferenza.
Questi sono solo alcuni dei significativi esiti delle osservazioni condotte da chi studia tali aspetti del processo.
CONCLUSIONI
Concludendo sul punto, mi pare che quanto emerge dal quadro delineato sia questo.
La nostra mente inevitabilmente incappa nei suddetti processi valutativi irrazionali (bias, euristiche ed errori cognitivi in generale), inoltre essi incidono sensibilmente sull’andamento delle cause. Però non ne siamo totalmente in balia. Infatti prendendoci il giusto tempo e dandoci il modo di effettuare una seconda -ben ponderata- valutazione, nonché accumulando esperienza e con l’allenamento, possiamo arrivare a correggerli in buona parte.
Peraltro, conoscendo tali meccanismi possiamo individuarli oltre che in noi stessi pure nel ragionamento altrui e così esplicitarli nel corso del dibattito processuale. Quanto, come e quando poi sia opportuno farlo (soprattutto per il difensore) lo determinerà l’esperienza (ad esempio: conviene esplicitare subito lo stereotipo sfavorevole all’assistio che aleggia nell’aria o richiamando l’attenzione su di esso c’è il rischio di rafforzarlo, consolidando il bias di ancoraggio e/o l’euristica della disponibilità?).
Per tirare definitivamente le somme di quanto finora detto, rimando a quello che sarà il terzo capitolo di questa serie di approfondimenti sul corso di Villa Castelpulci. Prima, però, vorrei soffermarmi con più attenzione su come tali dinamiche e bias incidano sulla valutazione del materiale probatorio.
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– 2° APPRONODIMENTO: “Psicologia della prova testimoniale e scientifica”.
– CONCLUSIONI: (sarà pubblicato prossimamente).
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