LE NUOVE SENTENZE DI SAN MARTINO
La Terza Sezione della Cassazione intende fissare alcuni punti fermi in tema di danno alla persona.
Con un tempismo ricco di significato, ossia nello stesso giorno di San Martino (11 novembre) in cui già una volta nel 2008 la Suprema Corte (quella volta a Sezioni Unite) aveva fissato alcuni principi fondamentali in tema di risarcimento del danno alla persona, la Terza Sezione della Corte di Cassazione deposita dieci nuove pronunce afferenti al tema (C.C., Sez. III, 11.11.19, nn. da 28985 a 28994).
Visto l’evidente intento dei Giudici della Suprema Corte di assicurare la maggiore risonanza possibile ai principi sanciti, con questo intervento mi propongo di riassumere per sommi capi cosa emerge di nuovo (o comunque di interessante) da tale “decalogo”.
TERAPIA E CONSENSO INFORMATO.
Come è noto quando ci sottoponiamo ad una terapia o ad un intervento ci viene prima fatto sottoscrivere il c.d. consenso informato. Si tratta di un documento che rappresenta all’interessato le principali caratteristiche, le possibilità di successo ed i rischi affinché il paziente possa decidere consapevolmente se sottoporvisi o no.
Termini del problema relativo al consenso informato
Nella sentenza di San Martino ci si domanda innanzitutto se gli obblighi in tema di consenso informato valessero già da prima dell’entrata in vigore di alcune importanti fonti di diritto eurounitario e internazionale.
In secondo luogo, viene ripreso un dibattito molto interessante: ci si è spesso chiesti in dottrina e giurisprudenza (con risultati difformi) se la violazione del consenso informato fondi in sè e per sè una pretesa risarcitoria oppure no. Ad esempio: se il medico cura il paziente e migliora il suo stato di salute, ma consegue tale risultato adottanto una terapia non previamente resa nota o addirittura espressamente rifiutata dall’assistito, quest’ultimo può comunque domandare un risarcimento?
Sul primo punto la Cassazione è netta nel rammentare che il dovere di informare correttamente il paziente è da ritenersi ricompreso nei doveri del professionista già sulla base dell’interpretazione della normativa generale nostrana di lungo corso in tema di obbligazione del professionista sanitario (viene citata addirittura una pronuncia del ’68). Oggi a ribadirlo è poi anche una recente specifica legge italiana (art. 1, l. 219/17), senza bisogno di scomodare le fonti sovranazionali.
Sul secondo punto, premesso che l’informativa completa e corretta al paziente è dovuta in ogni caso (anche se non esiste un vero e proprio “contratto”) e che su tale regola non hanno inciso le recenti riforme, viene prima operata una precisazione e poi delineata un’interessante distinzione.
La Corte evidenzia che la condotta di violazione del consenso e la condotta lesiva della salute (ad es.: l’intervento mal eseguito) sono concettualmente attività illecite distinte, ma non totalmente indipendenti. In particolare, la violazione del consenso (che tradizionalmente è concepita come lesiva del diritto all’auto-determinazione) può essere talvolta con-causa pure del danno all’integrità psico-fisica (ossia lesiva anche del diritto alla salute).
Perciò, dalla violazione del consenso informato potrà scaturire: o il risarcimento per lesione del diritto di determinare liberamente le proprie scelte ove sia allegato e provato il relativo – ed effettivo – danno (ad es.: se il paziente avesse saputo che la terapia, pur se curativa, avrebbe indotto un certo drastico cambiamento dello stile di vita non l’avrebbe accettata), o il risarcimento in punto di solo danno biologico (lesione dell’integrità psico-fisica), oppure entrambi, o ancora nessuno. Bisognerà cioè distinguere i seguenti casi:
1) il paziente, ove correttamente informato, avrebbe comunque accettato la terapia -> in tal caso nulla va risarcito per la lesione del diritto all’autodeterminazione (non essendo allegato/provato alcun ulteriore danno in tal senso) e sarà perciò da risarcire:
a) solo l’eventuale lesione all’integrità psico-fisica, se effettivamente provocata, ma ritenendola causata soltanto dall’errata esecuzione della prestazione;
b) nulla se non vi è stata nemmeno concreta lesione della salute;
2) il paziente, ove correttamente informato, avrebbe rifiutato la terapia -> in tal caso, viene concretamente violata la libertà di scelta, quindi ove da ciò sia scaturito un effettivo danno serio e dimostrabile va risarcita la lesione del diritto all’autodeterminazione; inoltre, se vi è anche lesione della salute, andrà risarcito pure tale danno, ritenendolo però (e qui risiede la novità) causato dall’originaria violazione del consenso. Ancora, se l’esecuzione della prestazione medica (che sarebbe stata rifiutata in presenza di corretta informazione) si limita ad aggravare una condizione patologica preesistente la lesione alla salute andrà valutata come “differenziale” tra il maggior danno biologico conseguito all’intervento ed il preesistente (già precario) stato di salute;
3) il paziente, ove correttamente informato, avrebbe prestato il consenso, ma solo parzialmente e/o a condizioni diverse -> in tal caso,
a) se viene allegato e dimostrato un effettivo serio pregiudizio (diverso dal danno alla salute in sè e per sè) per effetto della violazione del consenso (ad es.: conoscendo le conseguenze il paziente, pur volendosi sottoporre ad esso, avrebbe differito l’intervento per poter fare prima alcune cose che dopo non avrebbe più potuto fare e da ciò è derivato un tangibile nocumento) esso andrà risarcito;
b) altrimenti, è come nel suddetto caso n. “1” (risarcimento del danno alla salute, se sussistente, ma considerandolo causato solo dall’errata esecuzione; in mancanza anche di esso nulla da risarcire).
Risulta infine importante notare che spetta sempre al paziente dimostrare (con ogni mezzo, anche tramite prova presuntiva) che non avrebbe prestato in tutto o in parte il consenso se correttamente informato.
LIQUIDAZIONE DEL DANNO (PERMANENTE) ALLA SALUTE OVE CONCORRANO PIU’ LESIONI.
Talvolta è certo che una determinata condotta ha causato un danno permanente all’integrità psico-fisica, ma è dubbio come quantificarlo in termini monetari ai fini del risarcimento se tale lesione si realizza in un contesto di stato di salute già affetto da un qualche pregiudizio pregresso. Ad esempio, si pensi al caso di Tizio che era già invalido al 60%, ma dopo un incidente stradale vede elevata la propria invalidità al 70 %. Di “quanto” è tenuto a rispondere chi l’ha investito?
Termini del problema relativo al danno differenziale
La sentenza di San Martino che pronuncia in materia si pone innanzitutto il problema di precisare come operino le regole sul nesso causale in simili contesti.
Inoltre, venendo al punto principale, la pronuncia compie un’importante precisazione circa quale sia la corretta operazione aritmetica per “imputare” la quota di danno (e quindi di risarcimento) dovuta da parte dell’ultimo danneggiante della serie cronologica.
La Cassazione ci tiene innanzitutto ad evidenziare la (in realtà già ben nota e consolidata, salvo interpretazioni minoritarie) doverosa distinzione tra due concetti di causalità. In sintesi, per condannare il presunto danneggiante al risarcimento bisogna operare due differenti accertamenti in punto di nesso causale (oltre che degli altri elementi costitutivi richiesti dalla legge):
– in primis, che la sua condotta (ad es.: guida del veicolo) abbia causato (secondo le regole degli artt. 40 e 41 c.p.) l’evento di danno, ossia la lesione del diritto tutelato dalla legge (ad es.: la frattura di un osso nell’impatto, che è una lesione del diritto alla salute). E’ questa la c.d. causalità materiale, con cui si “imputa” ad un autore l’aver causato (in senso naturalistico) un danno, anche se magari in concorso con altre cause (ad es.: anche, eventualmente, in concorso con la stessa imprudenza del pedone, poiché in tale ipotesi è comunque responsabile -in senso naturalistico- colui che l’ha investito, a meno di un’imprudenza così eclatante e talmente imprevedibile da potersi ritenere essa stessa di per sè causa esclusiva del sinistro);
– in secundis, che il suddetto evento di danno o lesione del diritto abbia prodotto (quale passaggio ulteriore necessario) un pregiudizio effettivamente risarcibile in base alla normativa vigente (art. 1223 c.c.) e cioè, in particolare, determinare quale nocumento di preciso, ossia individuando quali forzose rinunce patite dal danneggiato possano ritenersi “conseguenza immediata e diretta” e quali no (ad es.: proprio da quella frattura nuova è emersa quella certa misura aggiuntiva di invalidità permanente, senza che ad essa si possa invece imputare quell’altra minor invalidità già preesistente). E’ questa la c.d. causalità giuridica, con cui si imputa a quel determinato autore la misura, il quantum, del risarcimento da lui dovuto. La si verifica mediante il c.d. criterio controfattuale, cioè domandandosi cosa sarebbe idealmente accaduto se l’infortunio non si fosse affatto verificato.
Ciò premesso, viene rimarcato che la preesistenza di malattie o menomazioni in capo alla persona vittima di lesioni personali può rilevare quale concausa sia della lesione della salute (cioè in punto di causalità materiale, poiché ad esempio una pregressa fragilità ossea può far sì che un urto normalmente lieve causi fratture che normalmente non si verificano), sia della menomazione che ne è derivata (cioè in punto di causalità giuridica, poiché se ad esempio il danneggiato già non usava la mano destra fargli perdere anche l’uso della sinistra dà luogo a pregiudizio assai più grave). Poi viene operata la seguente distinzione tra differenti tipologie di “lesioni policrone”.
– Coesistenti -> Se il danneggiato era già affetto da menomazioni, ma non vi è stata una concreta incidenza ed interferenza tra le stesse ed i postumi dell’illecito da ultimo considerato, allora la percentuale di invalidità permanente “imputata” all’autore dell’illecito in questione dovrà essere quella intera risultante, cioè come se egli avesse danneggiato una persona sana, senza scomputare punti. Ossia, ad esempio: a seguito dell’incidente stradale causato da Tizio, Caio perde totalmente l’udito, ma già prima udiva solo parzialmente. Se la totale perdita dell’udito sarebbe stata causata in un simile incidente anche ad una persona sana allora in ogni caso Tizio risponderà dell’intero, senza scomputare punti di invalidità per il fatto che Caio già udiva poco.
– Concorrenti -> Se il danneggiato era già affetto da menomazioni e vi è interferenza coi postumi dell’illecito considerato, nel senso che si aggravano le une con gli altri o viceversa (ad es., era già non vedente da un occhio, poi perde anche l’altro diventando totalmente cieco), allora la modalità di calcolo corretta per imputare l’ammontare del risarcimento dovuto dal danneggiante sarà la seguente. Si partirà dall’equivalente monetario dell’intero grado di invalidità permanente risultante, poi si sottrarrà l’equivalente monetario del grado di invalidità preesistente. Si tenga conto che tale modalità di calcolo è molto più vantaggiosa per il danneggiato rispetto al sottrarre dai punti di invalidità permanente i punti di invalidità pregressa e poi, solo a quel punto, convertire la predetta differenza nell’equivalente monetario!
E’ importante poi la chiara indicazione che la Cassazione fornisce in tema di accertamento demandato al Consulente Tecnico (che è il medico-legale): egli non deve mai “diminuire” il grado di invalidità permanente che va ad accertare sulla base del fatto che vi siano menomazioni pregresse. Piuttosto, dovrà accertare sia il totale di punti di invalidità risultante da ultimo, sia l’ammontare di punti di invalidità che si poteva considerare preesistente. Poi spetterà solo al Giudice trarre le proprie conclusioni in punto di ammontare monetario del risarcimento.
RIPARTO DELLA RESPONSABILITA’ TRA MEDICO E STRUTTURA.
La Legge 24/17 (c.d. Gelli-Bianco) ha ripartito in maniera determinata l’onere risarcitorio nei rapporti interni tra singolo Medico e Struttura nella quale il primo ha operato nel causare il danno, in particolare ponendo limiti aritmetici ed in punto di presupposti di fatto (“solo in caso di dolo o colpa grave”) al diritto di rivalsa della seconda verso il Professionista (artt. 7 e 9).
La Cassazione, in occasione di queste nuove sentenze di San Martino, è stata però chiamata a chiarire se analoghi principi valgano anche per i casi precedenti alla riforma.
Termini del problema relativo al riparto dell'onere risarcitorio
Posto che sia il Medico sia la Struttura hanno dei doveri di cautela, diligenza e cura verso il paziente (ad es., anche la Struttura deve garantire turni che non rendano troppo stressati ed inefficienti i Medici, adeguate condizioni igieniche, eccetera), prima della riforma c.d. Gelli-Bianco si davano in teoria tre possibilità:
- ritenere che la responsabilità contrattuale della Struttura “assorbisse” in toto quella del Medico, ove costui avesse meramente adempiuto, senza “deviazioni”, all’obbligazione assunta dalla prima -> tutto il carico risarcitorio sarebbe rimasto in capo alla Struttura (senza rivalse verso il Medico), non “cumulandosi” le responsabilità dell’uno e dell’altra;
- ritenere assorbente la responsabilità del Medico per colpa (o addirittura dolo) esclusiva di quest’ultimo -> la Struttura avrebbe avuto diritto di rivalsa per l’intero verso il Medico;
- ritenere responsabili in egual misura entrambi, anche ove vi sia colpa del Medico, a meno che egli non abbia agito in maniera totalmente “esuberante” ed imprevedibile rispetto ai propri doveri ed alle corrette pratiche.
Ad avviso della Cassazione varrà la terza delle ipotesi sopra contemplate. Cioè nel servirsi di collaboratori per operare la Struttura accetta sempre il rischio connaturato all’avvalersi di terzi nell’adempiere ad una propria obbligazione. Perciò, di norma, varrà la presunzione di pari responsabilità tra Medico e Struttura. Tale presunzione sarà superabile solo ove la Struttura dimostri non soltanto la colpa esclusiva del Medico, ma anche (in aggiunta) una sua “condotta del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione“.
PERSONALIZZAZIONE DEL DANNO E PERDITA DELLA CAPACITA’ LAVORATIVA.
Il risarcimento del danno biologico viene liquidato secondo delle Tabelle che si basano sulla percentuale di invalidità permanente e l’età. Però si concede al Giudice il potere di “personalizzarlo”, ossia di discostarsi da tali parametri aritmetici in presenza di particolari circostanze eccezionali specifiche del caso concreto.
La Cassazione, con le nuove pronunce di San Martino, ha voluto effettuare qualche precisazione sul punto.
Termini del problema relativo alla personalizzazione del danno ed all'incidenza sull'attitudine lavorativa
Quando vanno allegate (cioè scritte negli atti di causa) le specifiche circostanze di fatto sulla base delle quali si invoca la “personalizzazione”?
Quali pregiudizi rientrano già nel danno biologico considerato dalle Tabelle e quali invece sono aggiuntivi, cioè non contemplati ex ante in tali parametri, e quindi valorizzabili nella “personalizzazione”? Come incide in particolare la perdita di capacità lavorativa?
Le specifiche circostanze alla base della “personalizzazione” vanno allegate tempestivamente dalla parte interessata, cioè fin da subito, senza che possa sopperire a tale mancanza il Giudice o il CTU, magari basandosi su generalizzazioni o motivazioni stereotipate.
Inoltre, la “personalizzazione” è ammessa solo laddove le conseguenze dannose in questione siano davvero eccezionali e cioè ulteriori rispetto a quelle che normalmente si riscontrano nella generalità dei casi in cui il soggetto è rimasto affetto da quella determinata percentuale di invalidità a quella determinata età. In particolare, pure gli “aspetti dinamico-relazionali” sono di norma già contemplati dal sistema Tabellare. Quanto sopra richiede una rigorosa motivazione da parte del Giudice.
Ciò premesso, la Cassazione chiarisce come vada liquidato il danno derivante dalla perdita del lavoro e/o della capacità di produrre reddito (trattandosi di pregiudizi distinti).
Viene ribadito il principio ormai abbastanza consolidato (salvo qualche sporadica incertezza e/o smentita in giurisprudenza) per cui la perdita di capacità lavorativa c.d. generica (cioè di svolgere una generica ed astratta attività lavorativa produttiva di reddito confacente a persona in salute di quell’età) rientra nel “normale” danno biologico: in sostanza, già ne tengono conto i parametri delle Tabelle suddette, quindi non bisogna liquidare un importo aggiuntivo per essa.
Invece, si afferma usualmente che sia ammessa la liquidazione di un’ulteriore posta risarcitoria ove venga allegata e dimostrata una perdita di capacità lavorativa c.d. specifica (cioè la sopravvenuta impossibilità di svolgere quella specifica attività, propria di quel danneggiato soltanto, che gli procurava o gli avrebbe potuto procurare un determinato reddito non aspirabile dalla generalità dei potenziali lavoratori di pari età). Ebbene, sul punto la Cassazione ci tiene a compiere una serie di precisazioni.
– Lesione della c.d. cenestesi lavorativa -> Se a seguito della lesione il danneggiato può continuare a svolgere l’attività lavorativa, e quindi può conservare il reddito, ma lo farà con minor benessere, allora tale pregiudizio sarà ricompreso nel “normale” danno biologico, ma con possibilità di “personalizzazione” in aumento rispetto al mero parametro base Tabellare. Laddove però tale maggiore penosità del lavoro finisca per incidere sulla vera e propria capacità di produrre reddito, allora andrà risarcita in aggiunta pure tale perdita (non come danno biologico, ma come danno patrimoniale).
– Perdita del reddito -> Se il danneggiato finisce per perdere (non il lavoro, ma) la capacità di percepire reddito, ora come in futuro, in tutto o in parte, andrà risarcito come danno patrimoniale tale lucro cessante, liquidato in base al reddito che si reputa esser stato perduto. Poi se il soggetto danneggiato in quel momento non aveva un lavoro, allora bisognerà commisurare il risarcimento al reddito che verosimilmente egli, ove fosse rimasto sano, avrebbe percepito.
– Perdita del lavoro ma non del reddito -> Se il danneggiato perde lo specifico lavoro che stava svolgendo, ma non la capacità di percepire redditi altrove, allora avrà diritto a vedersi risarcire il danno patrimoniale commisurato al periodo di causata disoccupazione ed all’eventuale differenza di reddito rispetto al nuovo lavoro.
DANNO DA MORTE E POSIZIONE DEI CONGIUNTI.
Più volte in passato ci si è chiesti come liquidare il danno patito dai congiunti in conseguenza della (in senso lato) sofferenza causata dalla morte della persona cara. La Cassazione con le pubblicazioni di San Martino ribadisce alcuni punti.
Termini del problema relativo al pregiudizio patito dai superstiti
Ai superstiti che “categorie” di danno si possono riconoscere e risarcire? Come si commisurano i conseguenti risarcimenti?
In passato vi sono stati varie oscillazioni in giurisprudenza, ma in questa occasione la Cassazione richiama con interpretazione rigorosa il dictum delle Sezioni Unite del 2008. Cioè il Giudice nel liquidare il risarcimento non può considerare quali poste distinte sia il danno morale, cioè la sofferenza ed il patema d’animo provati una tantum, sia il danno da perdita del rapporto parentale, che si sviluppa nel corso della successiva vita del superstite per la mancanza della persona cara. Nè tanto meno è possibile distinguere da quest’ultimo un’ulteriore categoria di danno “esistenziale” (cioè per sconvolgimento dell’esistenza del danneggiato). Vanno infatti considerate tutte sfaccettature -non cumulabili- dell’unico danno non patrimoniale.
D’altro canto, pur nell’alveo dell’unitario danno non patrimoniale, il Giudice potrà liquidare un quid in più rispetto al mero danno biologico (considerato dal sistema Tabellare) laddove i suddetti pregiudizi siano ulteriori rispetto a quelli aventi base medico-legale e cioè a quelli medicalmente accertabili.
Gran parte dei suddetti pregiudizi verranno accertati per presunzioni. In tale accertamento sarà di norma corretto valutare e valorizzare soprattutto il grado di vicinanza della parentela, ma sarà possibile dimostrare l’esistenza di un intenso legame affettivo perduto anche tra non parenti, ove effettivamente esistito. Inoltre, andranno valorizzati l’esistenza o meno in vita di altri congiunti e la convivenza o meno col defunto prima dell’evento infausto.
Viene confermato un principio, pochi anni fa ribadito dalle Sezioni Unite: non esiste un diritto al risarcimento della morte in sè e per sè ereditabile dai superstiti del defunto. Piuttosto, costoro potranno ereditare (in aggiunta al diritto a veder risarcito il proprio personale pregiudizio) il diritto al risarcimento già maturato in capo al defunto prima che morisse in due casi:
- danno biologico terminale -> per un apprezzabile lasso di tempo prima del decesso colui che poi è deceduto ha visto lesa la propria salute, patendo il relativo danno biologico;
- danno morale terminale -> il defunto ha potuto percepire coscientemente la sofferenza ed il patema per le ferite subite o addirittura per la consapevolezza della morte imminente, con pregiudizio quindi patito e consolidatosi già prima del decesso.
RETROATTIVITA’ O IRRETROATTIVITA’ DELLE RIFORME BALDUZZI E GELLI-BIANCO
Le recenti riforme c.d. Balduzzi (d.l. 158/12, convertito in l. 189/12) e Gelli-Bianco (l. 24/17), tra le altre cose, hanno imposto al Giudice chiamato a liquidare il risarcimento per lesioni derivanti da responsabilità medica di rifarsi alle Tabelle previste dal Codice delle Assicurazioni Private per i sinistri automobilistici (artt. 138-139, d.lgs. 209/05). Tali parametri sono però notoriamente più sfavorevoli, dal punto di vista economico, rispetto alle Tabelle solitamente utilizzate dai Tribunali (in particolare le più utilizzate: le c.d. Tabelle di Milano).
Ancora, la seconda riforma ha mutato radicalmente la natura della responsabilità medica: prima veniva in via consolidata ritenuta di natura c.d. contrattuale, con notevoli semplificazioni probatorie per il danneggiato ed un più lungo termine di prescrizione. A partire dalla riforma Gelli-Bianco invece resta tale solo la responsabilità della Struttura, mentre il singolo Medico risponde a titolo c.d. extracontrattuale, con più rigorosi oneri probatori per il danneggiato e più breve termine di prescrizione.
Ci si è chiesti se tali mutamenti si applichino anche ai casi sorti prima dell’entrata in vigore delle riforme. Al dubbio rispondono le nuove sentenze di San Martino.
Termini del problema relativo alla vigenza temporale delle riforme
Se la lesione era stata causata prima delle riforme suddette si applicherà comunque il nuovo parametro di liquidazione (più sfavorevole per il danneggiato) o si applicherà ancora quello precedente (più favorevole)? E ancora, per il singolo Medico la responsabilità andrà considerata di natura c.d. contrattuale o c.d. extracontrattuale?
Con un’estesa motivazione, la Cassazione ritiene i nuovi parametri di liquidazione retroattivi e quindi applicabili anche ai casi pregressi rispetto all’entrata in vigore delle riforme. Infatti, in estrema sintesi, ad avviso della Cassazione:
– le riforme in punto di criteri di quantificazione del risarcimento non hanno mutato un criterio legale preesistente, ma solo precisato come la liquidazione equitativa del quantum debba essere effettuata. Quindi il rapporto è tra una sopravvenuta riforma ed una (mera) prassi giurisprudenziale preesistente, senza che perciò si dia un problema di successione di leggi nel tempo (ove si potrebbe porre la questione dell’irretroattività, v. art. 11 Preleggi). Nemmeno vi è lesione dell’affidamento dei consociati nella certezza del diritto;
– le riforme sul predetto punto non incidono sulla fattispecie costitutiva di un diritto sostanziale (come avverrebbe ad es. nel dichiarare non più risarcibile una determinata “voce” di danno), ma unicamente sulle modalità di esercizio del potere discrezionale del Giudice chiamato a liquidare (con criterio equitativo) il dovuto all’avente diritto;
– i criteri di fondo sulla cui base sono costruiti i Parametri del Cod. Ass. Private tra l’altro coincidono con quelli delle Tabelle discrezionalmente adottate dai Tribunali.
Per quanto invece riguarda la definizione della natura della responsabilità del singolo Medico (c.d. contrattuale, più favorevole per il danneggiato, o c.d. extracontrattuale, più favorevole per il danneggiante) ad avviso della Cassazione vale esattamente l’opposto di quanto sopra. In questo caso, l’ultima riforma ha mutato i veri e propri presupposti per l’esercizio del diritto sostanziale (onere di interrompere la prescrizione entro 5 anni invece che dieci, onere di provare dolo/colpa ed “ingiustizia”, invece che mero inadempimento). Tra l’altro, ove venisse applicata ai processi in corso, li stravolgerebbe (domande giudiziali “partite” come ammissibili diverrebbero inammissibili in corso d’opera; cause già “provate” nei requisiti richiesti prima diverrebbero sprovviste di prova in ordine ad un elemento ulteriore richiesto solo a processo già in stato avanzato). Ciò sì che lederebbe irragionevolmente ed inaccettabilmente l’affidamento delle parti. Perciò con riferimento a tale ambito vige invece l’irretroattività rispetto ai casi pregressi all’entrata in vigore.
NESSO CAUSALE E INSUFFICIENZA DELLA COLPA
La tendenza intuitiva è quella di associare automaticamente la colpa alla responsabilità: se il Medico ha sbagliato allora deve risponderne. Tuttavia il mero elemento soggettivo non basta. Affinché possa esservi la condanna a risarcire un danno bisogna anche dimostrare che proprio il presunto danneggiante l’abbia causato. La Cassazione, con le pronunce di San Martino, ha voluto far chiarezza sul punto.
Termini del problema relativo al nesso causale nell'ambito della responsabilità medica
Quando il Consulente Tecnico d’Ufficio (Medico legale incaricato dal Giudice) non riesce ad accertare se, alla luce delle proprie cognizioni tecniche, un diverso agire del Medico avrebbe potuto portare a maggiori concrete chance di sopravvivenza del paziente deceduto, a danno di quale parte ricade tale incertezza? Ossia, l’onere di provare il nesso causale (incerto) è del danneggiato (o suoi eredi) o del presunto danneggiante?
Va detto che il dubbio si può porre solo nell’ambito della responsabilità c.d. contrattuale, cioè derivante dall’inadempimento di un’obbligazione preesistente (era tale tradizionalmente la responsabilità del Medico; mentre ora, dopo le recenti riforme, è tale solo quella della Struttura, mentre il singolo Medico risponde invece oggi a titolo c.d. extracontrattuale).
Infatti, nella responsabilità c.d. extracontrattuale (cioè derivante da un fatto illecito, a prescindere dall’esistenza di un rapporto obbligatorio tra le parti) è sicuro che spetti al danneggiato provare in maniera rigorosa tutti gli elementi della fattispecie, incluso il nesso causale.
Invece nella responsabilità c.d. contrattuale vige il tradizionale principio per cui il soggetto che ritiene di aver subito l’altrui inadempimento deve solo lamentarlo, spettando al presunto inadempiente provare il contrario. Tale principio per la maggior parte dei contratti funziona agevolmente (ad es.: se per contratto Tizio deve €1.000 a Caio, a Tizio basta lamentare in giudizio l’esistenza del contratto ed il mancato pagamento, poi spetterà a Caio dimostrare che tale somma non è realmente dovuta o che è già stata versata).
Però nell’ambito della responsabilità medica tale riparto degli oneri di allegazione e prova può creare confusione.
La Cassazione ci tiene a precisare che pure nell’ambito della responsabilità professionale c.d. contrattuale non vanno confusi i due piani distinti del nesso causale (in particolare della causalità c.d. materiale) e della colpa (che ha effettivamente punti di contatto con la causalità c.d. giuridica).
In altri termini: se il Medico viola le norme tecniche del corretto agire a regola d’arte proprie del suo mestiere è sì inadempiente rispetto all’interesse del paziente di essere curato con diligenza, ma ciò di per sè non implica altresì che quel Medico abbia pregiudicato le possibilità di guarire dell’assistito.
Si tratta di due accertamenti distinti e se il Giudice accerta solo la colpa, ma non anche la materiale causazione dell’evento dannoso (essendone rimasta ignota la causa), allora non potrà esservi condanna al risarcimento. Chiaro però che il danneggiato potrà fornire tale prova anche in via presuntiva.
RISARCIBILITA’ DELLA PERDITA DI CHANCES
Spesso e volentieri il Medico si trova ad intervenire su un quadro clinico grave, ove le possibilità di un esito negativo sono a priori elevate. In tali casi molte volte la controversia si basa su un dubbio: se il Medico avesse agito meglio, vi sarebbero state maggiori chanches di sopravvivenza, anche solo per un tempo determinato, ma comunque godibile da parte del paziente? La Cassazione nel giorno di San Martino compie alcune precisazioni sul punto.
Termini del problema relativo alla perdita di chances terapeutiche
Qual è la “percentuale” di chanches di risultato migliore che ammette un risarcimento? Esiste un limite minimo predefinito? Come si distingue la valutazione del nesso causale dalla liquidazione (in termini monetari) del risarcimento?
Viene premesso che tale pregiudizio si colloca nel modello teorico del danno patrimoniale, benché sorgano difficoltà nel ricondurvi perfettamente la perdita della possibilità di conseguire un risultato migliore di natura non patrimoniale (stare meglio, guarire, ecc.) Ad esempio, se io lamento l’illegittima esclusione da un bando di gara bandito dalla P.A., in quel caso mi viene tolta (sottraendola dal mio “patrimonio”) una possibilità di guadagno che prima avevo. Se però mi viene curata male da un Medico una patologia che, lasciata a sè stessa, sicuramente mi avrebbe causato la morte, allora è diverso. In questo caso, infatti, se il Medico opera correttamente mi vengono create delle chances di sopravvivenza che altrimenti, per conto mio, non avevo. Tale differenza non può non ripercuotersi anche sui criteri di risarcibilità.
Innanzitutto, la perdita dovrà essere seria, apprezzabile e consistente: se le possibilità di miglior risultato erano assolutamente trascurabili non può darsi risarcimento.
In secondo luogo, non si ha perdita di chanches quando la consequenzialità tra condotta e risultato finale (solitamente il decesso) è indubbia: in quel caso vi è pieno, puro e semplice, danno alla salute / lesione del rapporto parentale / lesione del diritto all’autodeterminazione. Di perdita di chances si può parlare solo ove vi sia uno spazio di incertezza tra la condotta ed il risultato finale, sul quale la prima abbia inciso solo in misura probabilistica e non certa.
In terzo luogo, bisogna tenere distinti i seguenti passaggi:
- prima bisogna accertare se la condotta abbia causato una perdita di possibilità di un risultato migliore (evento di danno); se non si prova (o non sufficientemente) tale nesso causale secondo ordinarie regole civilistiche allora vi è rigetto della domanda di risarcimento, senza che il danno da perdita di chanches possa divenire l’escamoutage per sopperire a carenze probatorie del nesso eziologico;
- poi bisogna valutare se la possibilità di un risultato migliore che si assume perduta fosse apprezzabile e consistente e perciò risarcibile; non viene fornita dalla Cassazione una misura “percentuale” minima di tale apprezzabilità e consistenza, spettando al Giudice valutarla in concreto;
- infine, tale perdita, per definizione di carattere probabilistico, andrà risarcita secondo criterio equitativo, ma non per forza quale equivalente aritmetico della percentuale di possibilità di successo perduta stimata dal Consulente Tecnico, visto che ogni caso presenta le proprie peculiarità.
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