INCOSTITUZIONALI I NUOVI TERMINI DEL PROCESSO TRIBUTARIO?
Un possibile (ulteriore) motivo di incostituzionalità della riforma del 2015 del processo tributario.
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– La riduzione di un termine in procedimenti già in corso –
Riformare le regole del gioco non è mai semplice. Ancora più difficile risulta poi modificare in corso d’opera le norme processuali applicabili in procedimenti già instaurati. Infatti, occorre contemperare le esigenze di innovazione che spingono il Legislatore a varare una riforma con le non meno importanti esigenze di tutela dei diritti (in particolare di difesa) di chi ha già iniziato a ballare su quelle note.
A cadere sotto la lente d’ingrandimento di questo sintetico commento è in particolare la riforma del 2015 del termine per la riassunzione del giudizio di rinvio all’esito della cassazione, previsto dall’art. 63 del c.d. codice del processo tributario (d.lgs. 546/92). Vediamo perché.
IL CASO DI SPECIE IN BREVE.
– Tempestività col vecchio termine, tardività col nuovo –
Per capire il problema in pochissime parole, basti qui dire che si è presentato in Studio il caso di un contribuente che aveva interesse a riassumere il processo di fronte alla Commissione Tributaria Regionale a seguito dell’avvenuta cassazione della sentenza di appello. L’ordinanza della Suprema Corte aveva ritenuto scorretta l’applicazione di un principio di diritto da parte del Giudice di merito, benché tanto in 1° quanto in 2° grado il contribuente si fosse visto dare pienamente ragione (anche su altri aspetti, a nostro avviso parimenti determinanti).
Il contribuente ed il suo precedente difensore non si erano attivati immediatamente e la pratica era stata così portata alla nostra attenzione quando ormai mancavano pochi giorni alla scadenza dell’anno dalla pubblicazione del provvedimento della Cassazione. Ecco, ciò detto, il fulcro della questione è che tale ricorso in riassunzione:
- sarebbe risultato tempestivo applicando il termine precedente alla riforma (di 1 anno) e vigente quando egli aveva iniziato il procedimento;
- risulterebbe, al contrario, fuori termine applicando quello nuovo (di 6 mesi) previsto dalla riforma del 2015.
– La scelta dell’eccezione di incostituzionalità –
Stanti queste premesse, a seguito dell’approfondimento della questione, abbiamo ritenuto opportuno sollevare formalmente una questione di legittimità costituzionale, nell’auspicio che possa essere portata all’attenzione della Consulta (nell’ipotesi in cui non venisse ritenuta praticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata). Il fine è, ovviamente, quello di permettere al contribuente di riassumere il giudizio e continuare a far valere le proprie ragioni in giudizio.
PREMESSA: UNA RIFORMA CON VARI PUNTI CRITICI.
– Alcuni aspetti già dichiarati incostituzionali –
L’impianto complessivo del d.lgs. 156/15 è stato oggetto di numerose critiche per molteplici ragioni, relative tanto al merito delle scelte normative quanto alla qualità redazionale delle disposizioni, così da essere già stato colpito in parte da declaratoria di incostituzionalità (v. Corte cost., Sent., ud. 10-02-2016, 03-03-2016, n. 44 in materia di criteri di competenza del Giudice). La Consulta ha ricordato, infatti, che se anche, da un lato, vi è ampia discrezionalità del legislatore nella conformazione degli istituti processuali, dall’altro lato, esiste sempre un limite a tale discrezionalità che è quello “della manifesta irragionevolezza della disciplina, che si ravvisa … ogniqualvolta emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire”.
Ciò è stato affermato, pare di capire, anche alla luce del ruolo di “parte debole” del contribuente nel processo tributario, che come tale è meritevole di particolari tutele.
IRRAGIONEVOLEZZA DELLA NORMA DI DIRITTO INTERTEMPORALE.
Premesso questo, innanzitutto l‘art. 12 del d.lgs. 156/15, che disciplina l’entrata in vigore del nuovo termine, potrebbe porsi in contrasto con l’art. 3 Cost. laddove prevede che la nuova disciplina sia applicabile a tutti i processi, già instaurati o instaurandi che siano, senza distinzioni.
– Perché la differenza rispetto all’analoga riforma del processo civile? –
La norma pare infatti concretare una irragionevole disparità di trattamento rispetto al regime di diritto intertemporale delineato dall’art. 58 della l. 69/09, che disciplina l’entrata in vigore dell’analoga riforma avutasi per il processo civile. Ossia, pare ingiustificata la scelta del Legislatore della riforma del processo tributario di applicare i nuovi termini perentori a tutte le controversie piuttosto che solo alle cause non ancora iniziate, come invece disposto per l’analoga riforma del processo civile del 2009.
A ben vedere, leggendo i lavori preparatori della riforma del processo tributario, tale discrasia risulta esser stata voluta. L’asserita motivazione è quella di voler evitare “confusioni ed incertezze” che risulterebbero dalla coesistenza di due “riti”.
Tuttavia, non pare che sarebbero potute sorgere davvero simili “confusioni ed incertezze”, stante il fatto che il meccanismo della distinzione tra cause già iniziate e cause non ancora intraprese ai fini dell’applicazione dei nuovi termini processuali era a quel tempo stato già ben rodato nel processo civile riformato con legge 69/09 (sei anni prima). Anzi, la Suprema Corte aveva già più volte dichiarato la manifesta infondatezza di ogni contestazione in ordine a tale “doppio regime” (Cass. civ. Sez. lavoro, 16/12/2009, n. 26364; Cass. civ. Sez. III, Sent., 18-07-2011, n. 15718), pertanto da ritenersi non davvero foriero di tali presunte insuperabili problematiche, risolvibili dalla prassi applicativa.
– Si è anzi creata maggior confusione –
Inoltre, occorre rilevare la notevole incongruenza costituita dal fatto che il suddetto “doppio regime” ha già trovato applicazione altrove nel processo tributario con riferimento ad un altro termine perentorio (quello di proposizione dell’appello), stante il rinvio di cui all’art. 49 del c.p.t. alle norme del c.p.c. (v. Cass. civ. Sez. VI – 5 Ordinanza, 30/05/2016, n. 11087- rv. 639992; analogamente: Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., 21-06-2013, n. 15741 e altre ivi citate).
Quindi l’esistenza di un “doppio regime” (cosa che il d.lgs.156/15 apparentemente intendeva evitare) si è concretata comunque. Infatti la distinzione tra le cause già pendenti e quelle non ancora pendenti vale così solo per alcuni termini (l’appello) e non per altri (la riassunzione del giudizio di rinvio) del processo tributario. Ciò appare irragionevole e non facilmente giustificabile. Quindi la “confusione” che si diceva di voler evitare è anzi stata determinata proprio dalla mancata previsione nell’art. 12 d.lgs. 156/15 di una norma analoga all’art. 58 della l. 69/09.
Ulteriormente, si noti che la ratio della disposizione di diritto intertemporale contenuta nella riforma del processo civile del 2009 era quella di lasciare immutata la “situazione processuale” di chi avesse già intentato una controversia in base a determinate regole di procedura, anche a costo di creare un “doppio binario”. Evidentemente ciò era avvenuto ritenendo che anche le regole del processo incidano sulla sostanza dei diritti fatti valere in giudizio e che, pertanto, un repentino ed inaspettato mutamento in corso d’opera potesse di fatto pregiudicarne l’adeguata tutela. Ebbene, se tale ratio sussiste nel processo civile, allora evidentemente sussiste anche nel processo tributario. Anzi, in quest’ultimo dovrebbe essere ancora maggiore la tutela del ricorrente privato cittadino, non trattandosi di un processo tra parti private in posizione “paritaria” (cioè dove mutare il termine di cui vorrebbe avvalersi una potrebbe significare pregiudicare l’altra), bensì di un processo tra l’Amministrazione impositrice ed il contribuente che lamenta l’illegittimità di un atto impositivo. Ossia, trattasi di ambito in cui massima dovrebbe essere la tutela, anche dal punto di vista delle regole processuali, del ricorrente.
– Il possibile effetto paradossale –
Tra l’altro, come già sopra accennato, la norma censurata pare irragionevole anche poiché così come è formulata avrebbe potuto condurre ad un risultato paradossale: cioè a far sì che il potenziale riassumente avesse ancora a disposizione mesi per notificare l’atto fino al 31 dicembre 2015, ma poi dal 1° gennaio 2016 si trovasse improvvisamente col termine già interamente decorso (come molto autorevolmente segnalato dallo stesso Giudice Dott. Chindemi D.).
ECCESSO DI DELEGA.
Ulteriormente, la stessa riduzione del termine per la riassunzione da 1 anno a 6 mesi (l’art. 9, c. 1, lettera “bb” del d.lgs. 156/15) pare in contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost., dando molto verosimilmente luogo ad un eccesso di delega, alla luce dei contenuti della legge delega 23/14, artt. 1 e 10.
– Violati i principi di esercizio del potere delegato –
Ebbene, ci è ben noto il principio per cui nell’attuare la delega il Governo deve poter godere di una certa discrezionalità (v., ad es., Corte cost., 24-07-1995, n. 362). Tuttavia, ciò nonostante, paiono violati i principi che disciplinano il potere delegato del Governo, riassumibili in particolare nei seguenti termini: il contenuto della delega e dei principi/criteri direttivi si desume dal complessivo contesto normativo e dalle finalità della delega stessa; le norme delegate sono legittime solo fintanto che possono essere lette secondo significato compatibile con detti principi; i principi in questione vanno comunque interpretati secondo la ratio della legge delega e del complessivo quadro in cui si iscrivono; la delega può essere disposta mediante clausole generali solo e soltanto se accompagnate dall’indicazione di precisi principi da seguire (Corte cost., Sent., ud. 18-10-2016, 25-11-2016, n. 250).
– Manca qualsivoglia delega a riformare i termini –
Innanzitutto, occorre notare che in altre occasioni quando il Legislatore ha inteso delegare al Governo il potere di riformare i termini perentori di istituti processuali, quale ad esempio la riassunzione, l’ha fatto in maniera espressa (v. l. 69/09, art. 44, cc. 1 e 2 lett. “e”) e stabilendo in maniera precisa ed inequivocabile quali dovessero essere i principi e criteri direttivi di questa specifica modifica normativa.
Invece la riduzione del termine per la riassunzione del giudizio di rinvio operata dal d.lgs. 156/15 mediante la modifica dell’art. 63 c.p.t. è avvenuta in apparente assenza di qualsivoglia riferimento da parte della legge delega n. 23/14.
Analizziamone le norme. Tale legge delega al Governo il potere normativo con rango di legge mediante gli artt. 1 e 10.
– Di sicuro non rileva l’art. 1 –
L’art. 1 è di carattere molto generale, parlando in termini estremamente generici di disciplina in materia di “revisione del sistema fiscale”, “obbligazioni tributarie”, “obblighi contabili e dichiarativi”, “poteri in materia tributaria e … forme e modalità del loro esercizio”, “compensazione tra crediti d’imposta … e debiti tributari”. Anzi, se non fosse per la rubrica “Delega al Governo per la revisione del sistema fiscale e procedura” quasi non si capirebbe che si tratti di legge di delega alla riforma anche del processo tributario e non solo di norme sostanziali o relative alla procedura di accertamento da parte dell’Amministrazione.
– Ma a ben vedere nemmeno l’art. 10 –
L’articolo propriamente relativo al processo è invece l’art. 10, rubricato “Revisione del contenzioso tributario e della riscossione degli enti locali”. Analizziamolo punto per punto.
Tale articolo delega al Governo il potere di riforma del contenzioso innanzitutto “per il rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente” (e non si vede come ridurre il termine per la riassunzione, cui ha per lo più interesse proprio il contribuente, possa andare in tale direzione). Seguono poi riferimenti non al processo, bensì alla riscossione. Ancora, segue una delega in materia di “conciliazione nel processo tributario”. Fino a qui, dunque, nessun apparente accenno alla possibilità per il Governo di ridurre i termini di riassunzione del giudizio di rinvio. Ancora di seguito si trova l’enunciazione della delega in cui potrebbe forse rientrare la modifica normativa in esame: “incremento della funzionalità della giurisdizione tributaria”. Si tratta tuttavia di una disposizione estremamente generica ed a specificarla vi è solo la seguente aggiunta: “…in particolare attraverso interventi riguardanti:”. A questo punto vengono elencati tali “interventi”, relativi a: componenti e composizione delle Commissioni Tributarie; rappresentanza in giudizio; PEC; incarichi direttivi; trattamento economico dei componenti delle Commissioni Tributarie; elezione del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria; formazione e preparazione dei componenti delle Commissioni Tributarie; provvedimenti cautelari; esecutorietà delle sentenze; liquidazione delle spese del giudizio; informazioni al Ministero. Quindi, in nessun punto si parla di una riduzione di termini processuali. L’articolo prosegue poi con deleghe in materia di riscossione ed analisi statistica dell’esito dei giudizi, quindi parimenti non relative alle norme processuali.
Infine, vi è una delega in materia di “contemperamento delle esigenze di efficacia della riscossione con i diritti del contribuente, in particolare per i profili attinenti alla tutela dell’abitazione, allo svolgimento dell’attività professionale e imprenditoriale, alla salvaguardia del contribuente in situazioni di grave difficoltà economica, con particolare riferimento alla disciplina della pignorabilità dei beni e della rateizzazione del debito”. Ebbene, seppur la prima parte della disposizione abbia una portata potenzialmente “ampia”, alla luce della seconda parte risulta chiaro che è impossibile farvi rientrare la modifica delle norme processuali in esame. Quindi, in definitiva, appare sussistere l’eccesso di delega.
– Nemmeno vi è congruità col contesto di riferimento –
Ciò sia perché manca la delega specifica, sia perché anche a volerla ritenere conferita mediante “clausola generale”, comunque la modifica normativa in esame non trova appiglio in alcuno dei principi/criteri direttivi, che evidentemente afferiscono ad altri istituti. Tra l’altro, il contesto normativo in cui tale “innesto” si colloca è quello di un Codice del Processo Tributario che mira ad un avvicinamento di discipline tra processo tributario e processo civile, stanti i rinvii al c.p.c.. Dunque, l’avvenuta differenziazione in ordine ai regimi di diritto intertemporale non ci sembra poter essere “salvata” dalla censura di incostituzionalità nemmeno alla luce del contesto normativo di riferimento.
Del resto, la finalità realmente (ma, stante la carenza di delega, illegittimamente) perseguita dal Governo nel ridurre il termine di riassunzione del giudizio di rinvio pare esser stata solo quella di tentar di recuperare almeno in piccola parte quel “ritardo” nei giudizi tributari che si accumula quando questi finiscono in Cassazione.
– Violato l’espresso vincolo di retroattività –
Tra l’altro, la legge delega all’art. 1 precisa che i decreti attuativi dovranno rispettare il “vincolo di irretroattività delle norme tributarie di sfavore”; vincolo che tuttavia pare esser stato violato. Infatti, è vero che la norma in esame è formalmente di carattere processuale e non sostanziale, tuttavia è indirettamente idonea a produrre anche effetti sostanziali, incidendo di fatto sul regime di validità degli atti impositivi del Fisco. Peraltro, pare proprio essere “di sfavore” per il contribuente, il più delle volte unico interessato all’instaurazione e prosecuzione del giudizio tributario.
Ciò detto, non resta dunque che attendere per vedere come la questione verrà valutata dai Giudici competenti.
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