CENNI SULLE FONTI NORMATIVE.
Un rapido sguardo sul funzionamento delle fonti del diritto nell’Ordinamento Italiano.
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Spesso si ragiona su singole norme senza considerare adeguatamente come si collocano nel contesto generale, ossia nel sistema delle fonti del diritto. Può perciò accadere che si cada vittima di fraintendimenti o si prendano decisioni importanti sulla base di una comprensione solo parziale.
Questo accade continuamente, in particolare, nel dibattito politico. Ad esempio, non si considera a sufficienza quanto possa essere diversa la portata di una riforma se varata per “mero” decreto legge invece che tramite ben più “stabile” legge ordinaria (oltre spieghiamo la differenza). Succede però anche in altri contesti, come quello lavorativo. Pensiamo a quando ci sentiamo vincolati da una clausola perché scritta nel contratto individuale di lavoro, senza però chiederci se sia compatibile con il contratto collettivo e con le norme statali a monte: magari tale clausola è invece nulla. Talvolta, poi, l’omissione della valutazione del contesto la compiono le stesse Istituzioni. Ad esempio, spessissimo lo Stato emana normative che invadono la competenza riservata dalla Costituzione alle Regioni o viceversa, cosicché la Corte Costituzionale deve poi porvi rimedio (il contenzioso in materia è vastissimo).
Con questo articolo, dopo un’introduzione sui rapporti tra le fonti, ci proponiamo quindi di dare un rapido sguardo agli aspetti principali da tenere a mente quando ci accostiamo a ciascun tipo di fonte normativa. In altre parole, miriamo a fornire uno spunto a chiederci come la norma che stiamo esaminando si collochi nel contesto generale in cui si inserisce.
RAPPORTI TRA LE FONTI.
– Rapporti verticali/orizzontali –
Tra le fonti esiste una gerarchia per cui, tendenzialmente, quella superiore prevale su (delimitandola) quella inferiore. Del resto, tale criterio serve sia a prevenire il caos, sia a salvaguardare certi principi fondamentali (come il primato della Costituzione e del Parlamento). Ad esempio, una norma di legge non potrà contrastare con la Costituzione, a pena di poter essere rimossa da un intervento della Corte Costituzionale (ove il Giudice ordinario chiamato ad applicarla non sia in grado di darvi un’interpretazione conforme). Ancora, un mero regolamento dell’Esecutivo non potrà contrastare con la legge ordinaria. Eccetera. Perciò, quando ci si interroga sulla validità di una norma una domanda da porsi è sempre se vi sia compatibilità con la fonte sovraordinata.
Esistono però anche precise regole a disciplina dei rapporti tra fonti di pari grado. Ad esempio, si è già citato l’assetto previsto dalla Costituzione per cui su alcune materie legifera solo lo Stato, su altre legiferano solo le Regioni, su altre ancora entrambi (e in quest’ipotesi le seconde lo fanno nel rispetto dei principi fissati dal primo; art. 117 Cost.). Ad ulteriore esempio, si esclude (in teoria) la possibilità di ricorrere al decreto legge per qualsiasi esigenza normativa, benché esso abbia lo stesso valore (ma non la stessa stabilità) della legge ordinaria: per il primo, visto che inizialmente si elude l’esame parlamentare, occorre sussistano i requisiti della necessità e dell’urgenza. Ancora, il decreto legislativo ha lo stesso valore normativo di una legge ordinaria, ma deve rispettare i limiti della legge delega da cui scaturisce. Quindi, un’altra domanda da porsi è se la norma esaminata sia stata adottata con lo strumento giusto e/o dall’Ente corretto (competente).
APPROFONDIMENTO DELLE SINGOLE FONTI
Premesso quanto sopra, di seguito vediamo una ad una le principali fonti del diritto, descrivendone gli aspetti peculiari più interessanti.
Procediamo tendenzialmente partendo dall’apice e scendendo verso il basso, seguendo la gerarchia.
AL VERTICE DELLA PIRAMIDE.
Carta Costituzionale, Fonti sovranazionali, relazioni tra loro.
Tradizionalmente al vertice della sistemazione gerarchica si colloca la Costituzione. E’ importante ricordare che essa si compone di un nucleo “duro” ritenuto immodificabile (in particolare, i primi articoli relativi alle libertà fondamentali ed il divieto di mutare la forma di Stato Repubblicana ex art. 139 Cost.) e di una parte residua ritenuta invece modificabile. E’ poi possibile il varo di Leggi Costituzionali aventi sempre analogo valore gerarchico, a latere dell’originaria Carta Costituzionale. Per varare leggi e riforme costituzionali si deve adottare una peculiare procedura disciplinata dalla fonte costituzionale (art. 138 Cost.) e particolarmente gravosa: infatti la nostra è una Costituzione abbastanza “rigida”, per impedire facili arretramenti degli standard di tutela dei diritti e delle libertà ivi cristallizzati e faticosamente conquistati dalle generazioni passate.
Hanno valore sostanzialmente parificato alla Costituzione le pronunce della Corte Costituzionale che, nel darvi interpretazione ed applicazione, ne chiariscono (se non talvolta emendano) la portata normativa.
Come dicevo, la tradizione vuole le Costituzioni collocate al vertice degli Ordinamenti. Tuttavia occorrono alcune fondamentali precisazioni sul punto.
Infatti, la nostra Costituzione impone al Legislatore il rispetto delle fonti internazionali ed eurounitarie (dell’Unione Europea), che così, di fatto, assumono rilievo pratico almeno pari rispetto a quello delle norme costituzionali. Inoltre, la Costituzione implica una sorta di assorbimento automatico delle consuetudini internazionali riconoscibili come tali (art. 10 Cost.), che pertanto assumono a loro volta valore di norme costituzionali. Discorso ancora a parte andrebbe fatto poi per i rapporti con lo Stato Pontificio.
Peraltro esiste un “dialogo” tra la Corte Costituzionale e le Corti sovranazionali (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che vigila sul rispetto delle fonti di quest’ultima, e Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che vigila sul rispetto della CEDU, le cui pronunce a loro volta vincolano i Giudici italiani), per cui queste tendono a non contraddirsi. Insomma, le normative (e gli atti amministrativi e le sentenze) interne devono di fatto rispettare non soltanto la Costituzione in sè e per sè, ma anche il suddetto sistema di norme sovranazionali “costituzionalizzate” dai rinvii compiuti dalla Carta Fondamentale.
Va comunque detto che resta sempre salva la teorica possibilità della Corte Costituzionale di applicare i c.d. controlimiti: cioè affermare che la norma internazionale/eurounitaria considerata collide coi principi fondamentali del nostro Ordinamento e quindi imporre ai Giudici interni di disapplicarla.
Le fonti eurounitarie e la CEDU meritano un discorso a parte. Il loro valore nell’Ordinamento interno è stato definito mano a mano negli anni (visti i forti timori, soprattutto iniziali, di cedere troppa sovranità) da fondamentali pronunce della Corte Costituzionale, anche dialogando con la Corte di Giustizia dell’U.E. e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (nonché queste ultime tra loro); peraltro vi sono tuttora costanti dibattiti e sviluppi.
Semplificando all’estremo, oggi il Giudice nazionale deve innanzitutto tentare di applicare la norma italiana che sospetta possa contrastare con la fonte sovranazionale/eurounitaria in modo conforme a quest’ultima. Ad esempio: se la stessa parola contenuta in una legge ordinaria è interpretabile sia nel senso A, sia nel senso B, ma solo quest’ultimo è conforme ad un vigente regolamento dell’Unione Europea o ad una disposizione della CEDU, allora il Giudice interno dovrà applicare la norma secondo il senso B. Se ciò non è possibile, si distinguono i seguenti casi.
La norma interna incompatibile col diritto dell’Unione Europea può oramai essere direttamente disapplicata dal Giudice italiano senza bisogno di scomodare la Corte Costituzionale (Sent. 170/1984). Laddove invece l’incompatibilità sia con la CEDU (benché essa contempli standard di tutela essenzialmente analoghi a quelli costituzionali e benché sia richiamata espressamente tra le proprie fonti dall’Ordinamento dell’Unione Europea stessa) si tende tuttora a ritenere necessaria una pronuncia della Corte Costituizionale affinché il Giudice italiano possa esimersi dall’applicare la norma interna. Ancora diverso è poi il problema in caso di un ipotetico contrasto tra fonti dell’Unione Europea e CEDU, anche se per ora le Corti nel loro “dialogo” l’hanno sempre fugato. Il tema è comunque estremamente caldo e vi sono costanti mutamenti.
Premesso che l’Unione Europea disciplina con proprie fonti solo alcune materie attribuite alla sua competenza dai Trattati (fondamento dell’Ordinamento eurounitario, ma su cui qui non ci soffermiamo) e lo fa secondo procedure predeterminate e differenti per ciascuna, le principali sono le seguenti (tralasciando raccomandazioni e pareri, che non hanno natura vincolante).
Innanzitutto, vi sono i regolamenti. Essi sono dotati di obbligatorietà integrale, cioè ogni Stato Membro li deve applicare in ogni loro parte anche se i suoi rappresentanti avevano votato contro l’adozione di alcune disposizioni. Inoltre, sono direttamente applicabili in ciascuno Stato Membro, senza che servano ulteriori ratifiche e/o approvazioni formali interne prima che le relative Istituzioni (Giudici, ma anche Pubbliche Amministrazioni) ne tengano conto. Infine, similmente alla legge statale, hanno portata generale, cioè sono utilizzati per rivolgersi ad una categoria indefinita e generale di soggetti e situazioni astratte (non il singolo caso specifico di Tizio o Caio).
Vi sono poi le direttive che, come i regolamenti, sono dotate di obbligatorietà integrale, ma per il resto presentano alcune significative differenze. In sintesi, con una direttiva l’Unione Europea disciplina un determinato oggetto imponendo il raggiungimento di un certo risultato e definendo dei principi e dei criteri che talvolta sono anche già molto dettagliati, ma richiedono comunque una trasposizione formale da parte del singolo Stato. Così si fa salva una maggiore autonomia da parte di ciascuno di essi, essendovi un margine di discrezionalità. Quindi, a differenza dei regolamenti, le direttive obbligano gli Stati stessi e non i soggetti su cui i primi esercitano sovranità (privati cittadini, imprese, eccetera). Perciò si dice che le direttive hanno portata individuale. Inoltre, manca la diretta applicabilità negli Ordinamenti interni. A dire il vero, quando sono sufficientemente determinate, incondizionate ed il termine concesso allo Stato per recepirle è scaduto si riconosce pure alle disposizioni ivi contenute efficacia diretta, anche se solo verticale e mai orizzontale (questo significa che, ad esempio, il cittadino Tizio non può invocare la norma in questione di una direttiva dell’U.E. non recepita dallo Stato membro in una causa contro il cittadino Caio, ma può invece farlo verso lo Stato stesso ed in particolare domandare il risarcimento per il danno derivatogli dal mancato recepimento).
Ulteriormente, meritano menzione le decisioni, che hanno natura di provvedimenti amministrativi e servono per specificare precedenti norme regolamentari, rivolgendosi tanto agli Stati quanto alle imprese (in particolare in tema di concorrenza, aiuti statali e mercato comune). Per esse l’efficacia diretta viene valutata caso per caso secondo i criteri summenzionati nell’esaminare le direttive, ma pare poter essere anche orizzontale.
Infine, integrano il diritto comunitario le pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (soprattutto quando danno luogo ad una giurisprudenza stabile e consolidata su una determinata materia).
LE FONTI DELL’UNIONE EUROPEA
INTRODUZIONE L’ordinamento giuridico dell’UE è costituito dall’insieme di norme che regolano l’organizzazione e lo sviluppo dell’Unione e i rapporti tra questa e gli stati membri.
TIPOLOGIE Il diritto dell’UE si distingue in:
1) ORIGINARIO: Trattati istitutivi e le loro modifiche (Atto Unico Europeo, Trattato sull’U.E. di Maastricht, Trattato di Amsterdam, Trattato di Nizza e Trattato di Lisbona). I Trattati istitutivi non prevedono alcuna forma di gerarchia ma è il TFUE all’art 288 ad indicare gli atti da adottare per la propria azione e quando nulla è scritto l’atto è discrezionale. Questi atti sono fonti di diritto di primo grado (c.d. diritto primario) dell’U.E. e per formare il complessivo insieme del diritto dell’U.E. ad essi si sommano:
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- quelli di diritto derivato (o diritto di secondo grado), perciò gerarchicamente subordinati (v. oltre); le norme di diritto di primo grado assieme alle norme di diritto di secondo grado costituiscono il diritto scritto;
- i principi generali enucleati dalla Corte di Giustizia dell’U.E. (che costituiscono il diritto non scritto).
2) DERIVATO: Tutte le norme giuridiche emanate dalle istituzioni dell’U.E. per la realizzazione degli obiettivi dei Trattati istitutivi.
-> Atti Tipici sono definiti dall’art. 288 T.F.U.E. (regolamenti, direttive decisioni, raccomandazioni e pareri ). Sono atti c.d. legislativi quelli adottati mediante procedura legislativa, che può essere ordinaria (adozione congiunta da parte di Consiglio e Parlamento) o speciale, cioè con peculiarità previste per l’adozione di quel dato atto (ossia raramente vi è adozione da parte del Parlamento con mera partecipazione del Consiglio, più spesso adozione da parte del Consiglio con mera partecipazione del Parlamento). Per gli atti legislativi la proposta di adozione proviene di norma dalla Commissione, per quelli non legislativi invece è così solo se lo prevedono i Trattati. Regolamenti, direttive e decisioni hanno carattere vincolante, mentre le raccomandazioni ed i pareri non sono vincolanti. Nel dettaglio, gli atti tipici hanno le seguenti caratteristiche:
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- REGOLAMENTI
- Destinatari: portata generale poiché non si rivolgono a destinatari determinati ed identificabili individualmente, ma a categorie generali considerate astrattamente nel loro insieme. Quindi interessano tutti gli Stati membri, ma anche le persone fisiche e giuridiche degli Stati stessi;
- Obbligatorietà: integrale, cioè in tutti i loro elementi;
- Efficacia: Direttamene applicabili negli Stati membri senza che sia necessario un atto di ricezione da parte dei singoli Ordinamenti statali;
- Entrano in vigore: Automaticamente dopo 20 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’U. E. (a meno che non sia indicato diversamente nel regolamento stesso).
- DIRETTIVE
- Destinatari: portata individuale, in quanto non hanno portata generale, ma sono indirizzate agli Stati membri chiamati a recepirle (singolo o tutti);
- Obbligatorietà: integrale quanto agli obiettivi e ad alcune disposizioni di dettaglio già sufficientemente specifiche (c.d. self-executive), ma per il resto con margine di discrezionalità in capo agli Stati membri riguardo ai mezzi e alle forme ritenute pià opportune per adempiere.
- Efficacia: non sono già direttamene applicabili negli Stati membri (salvo disposizioni sufficientemente specifiche, incondizionate e con termine già scaduto, come tali aventi già efficacia verticale negli Stati membri) ma devo essere recepite da parte dei singoli Stati membri interessati. Vige inoltre per gli Stati membri il divieto di adottare norme contrastanti, benché il termine di recepimento non sia ancora scaduto;
- Entrano in vigore: (ai fini dell’applicazione negli Stati membri) col recepimento in essi (salvo quanto detto per le norme self-executive).
- DECISIONI
- Destinatari: portata individuale e indirizzate sia agli Stati membri, sia a singole persone soprattutto giuridiche (in particolare imprese)
- Obbligatorietà: integrale, per i destinatari;
- Entrano in vigore : (per i destinatari) dalla data della notifica o da altra successiva espressamente indicata;
- RACCOMANDAZIONI
- PARERI
- REGOLAMENTI
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-> Atti atipici (autorizzazioni, concessioni, atti interni con le quali le Istituzioni regolano il proprio funzionamento ed aspetti pratici e di dettaglio).
FONTI PRIMARIE.
Leggi e atti aventi forza di legge, altre fonti di rango primario.
Sono fonti primarie quelle che si collocano gerarhicamente subito sotto alla Costituzione, ossia in particolare la legge e le altre fonti aventi forza di legge, quindi in grado di abrogare leggi pregresse, di superare fonti subordinate e di normare alcune delle materie che la Costituzione riserva (pià o meno esplicitamente) alla “legge” in alcuni dei propri articoli (ad es.: legge di bilancio, aspetti principali della legge elettorale, organizzazione della P.A., eccetera. In realtà, non tutti gli atti aventi forza di legge possono disciplinare tutte le materie coperte da riserva di legge, visto che per alcune si richiede la legge formale di formazione parlamentare in senso stretto).
Senza qui approfondirli, basti poi richiamare tra le fonti primarie anche i regolamenti parlamentari “generali” (che disciplinano il funzionamento del Parlamento specificando quel po’ di norme procedurali previste in Costituzione, ma talvolta coinvolgono anche soggetti “esterni”) ed i decreti eccezionali che potrebbero essere adottati in caso di dichiarazione dello stato di guerra (art. 78 Cost.).
Dovrebbe essere lo strumento normativo preferenziale, in quanto massima espressione della democrazia parlamentare, soprattutto in Italia ove vige il c.d. bicameralismo perfetto (necessità che il testo venga approvato identico da entrambe le Camere affinché la legge sia promulgata). In realtà, i lunghi tempi necessari (soprattutto in caso di ostruzionismo parlamentare) e la possibilità di proporre ed approvare molteplici emendamenti al testo originario durante i lavori parlamentari fanno sì che nella pratica si ricorra (troppo) spesso al decreto legge (vedi oltre).
La legge dovrebbe avere carattere generale, pur essendovi talvolta (comunque quale eccezione) leggi a contenuto assai particolare (le c.d. leggi provvedimento, come ad esempio la legge di scioglimento della loggia P2). Entra in vigore con la decorrenza ivi espressamente contemplata o altrimenti, in caso di silenzio sul punto, dopo 15 giorni.
Va chiarito che è una legge anche quella regionale, ossia adottata dalle Regioni (che però non dispongono come lo Stato anche di decreti legge e decreti legislativi) per le materie riservate alla loro competenza dalla Costituzione (art. 117 Cost.).
Il decreto legislativo è una fonte normativa statale (art. 76 Cost.) che fa salvo il primato del Parlamento, in quanto è quest’ultimo a dover preventivamente definire con propria legge (c.d. legge delega) i criteri ed i principi entro i quali dovrà muoversi chi scriverà le norme di dettaglio (nonché entro quanto tempo esercitare il potere delegato). Queste ultime vengono però materialmente redatte dal Governo, che le approva con propria delibera.
Si tratta di una scelta spesso utilizzata per formare i c.d. testi unici, ossia delle normative simili a piccoli codici che mirano a disciplinare in maniera organica, specifica e tecnica una determinata materia di una certa ampiezza. In particolare, evitare la normale procedura parlamentare permette sovente di scrivere testi intrinsecamente coerenti, cosa ben più difficoltosa con legge ordinaria, durante l’approvazione della quale potrebbero venir mano a mano aggiunti al testo iniziale emendamenti difficilmente coordinabili col resto delle disposizioni o concordati a seguito di difficoltosi compromessi politici a discapito della qualità tecnica.
Tra le fonti statali aventi forza di legge, anche il decreto legge contempla un’attività normativa da parte del Governo pur facendo salvo il primato del Parlamento, ma giunge a tale esito in maniera diversa.
In questo caso è il Governo che, di propria iniziativa e senza alcuna delega pregressa, adotta un testo normativo. Esso avrà immediata efficacia e forza di legge, ma decadrà con effetto retroattivo qualora il Parlamento non lo cristallizzi adottando entro 60 giorni una propria legge a tal fine (c.d. legge di conversione, la quale tra l’altro porta spessissimo con sé numerosi emendamenti). Ad esempio, il decreto legge X prevede che la condotta Y sia immediatamente vietata. Se dopo 60 giorni non viene convertito in legge tale decreto, in linea di principio anche chi avesse tenuto quella condotta vietata tra la data di emanazione del decreto legge e quella di decadenza non dovrà andare incontro a sanzioni.
L’idea di fondo è che tale schema andrebbe utilizzato solo in presenza di specifici requisiti di necessità ed urgenza (su cui, oltre all’art. 77 Cost., sono intervenute anche la l. 400/88 e la Corte Costituzionale), ma di fatto è ormai un mezzo abbastanza ordinario per far entrare immediatamente in vigore una normativa, spesso più che altro per dare agli elettori un’impressione di efficienza e di tempestività (anche se magari poi, scaduti i 60 giorni, il tutto decade o se magari la legge di conversione stravolge completamente l’impianto iniziale).
Perciò, quando si deve prendere in considerazione la norma di un decreto legge bisogna sempre tchiedersi se sia stata caducata dalla mancata conversione o come sia stata effettivamente convertita in legge.
L’Ordinamento italiano non permette ai cittadini di creare direttamente col proprio voto delle norme aventi forza di legge, visto che la nostra è una Repubblica Parlamentare basata sul principio -per l’appunto- della rappresentanza parlamentare. Tuttavia, consente l’indizione di un referendum in grado di abrogare una norma preesistente avente forza di legge. Anzi, si ritiene che tale ultimo atto abbia una forza superiore rispetto alle altre fonti primarie: è preclusa a Governo e Parlamento la possibilità di reintrodurre pari pari un quid abrogato dal referendum popolare.
Ancora, va detto che talvolta il referendum viene utilizzato in funzione “creativa” laddove lo si adotta per elidere una sola parte di un testo normativo, così da lasciarlo per il resto in vigore ma mutarne il significato finale.
Infine, va chiarito che la Costituzione lo esclude per certe materie, temendo se ne abusi in momenti di particolare turbamento e/o prendendo alcune gravi ed importanti decisioni “di pancia”: l’esclusione riguarda le leggi tributarie, di bilancio, di amnistia, di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati, oltre che (per intervento della Corte Costituzionale) le leggi costituzionali/di riforma costituzionale o affini (ad esempio, di esecuzione dei Patti Lateranensi) o comunque a contenuto costituzionalmente vincolato ed il caso in cui si provasse così a lasciare interamente priva di normativa una materia particolarmente importante (ad esempio, è stato ritenuto illegittimo il tentativo di rimuovere in toto la legge sulla procreazione medicalmente assistita).
E’ previsto anche da certi statuti regionali per le leggi regionali.
Come si è detto, anche le Regioni adottano proprie leggi, ma a monte di queste vi sono gli statuti. Va precisato, innanzitutto, che qui si parla delle Regioni a statuto ordinario, visto che per quelle a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige) lo statuto è adottato con legge costituzionale.
Lo statuto ha di fatto un contenuto abbastanza vincolato, dovendo rispettare precisi limiti di “armonia” imposti dalla Costituzione nel contemplare il regionalismo, tuttavia di fatto permette alle Regioni di disciplinare la propria struttura ed il proprio funzionamento con una qualche discrezionalità (ad esempio, consente loro di decidere se la potestà regolamentare spetterà alla giunta o al consiglio).
FONTI SECONDARIE.
Le fonti regolamentari.
Considerando l’Ordinamento interno, va notato che sia a livello statale, sia a livello regionale e locale esiste in capo agli Enti considerati una potestà regolamentare nei relativi ambiti di competenza. Si tratta cioè del potere di emanare vere e proprie norme giuridiche cogenti (quindi sempre volte a regolare una generalità di potenziali casi, delineando e disciplinando in maniera innovativa fattispecie astratte), ma ancora più di dettaglio e subordinate rispetto alla fonte normativa primaria (cioè di legge o di altro atto avente pari valore) del cui contenuto devono generalmente tener conto (salvo eccezioni, come quando un determinato Organo costituzionale si vede riconosciuta la potestà di autodisciplinare senza particolari paletti il proprio funzionamento).
Tale potestà sussiste poi non solo in capo agli Enti territoriali (Stato, Regioni, Province, Comuni, Città Metropolitane, Comunità Montane, Unioni di Comuni) e rispettivi organi di Governo del territorio, ma anche in capo ad alcune Istituzioni con riguardo alle materie di loro competenza (ad esempio: i regolamenti interni delle Camere del Parlamento). Di seguito vediamo alcuni dei pià importanti tipi di regolamento.
Spesso per disciplinare compiutamente un ambito su cui è già intervenuta la fonte primaria è necessario un intervento complementare da parte del Governo (Consiglio dei Ministri). O ancora, magari è opportuno un intervento normativo in una materia di cui tali fonti non si sono affatto occupate. Il potere regolamentare in commento è disciplinato in particolare dalla legge n. 400/1988, che riconosce la possibilità per il Governo di adottare regolamenti: volti ad eseguire o attuare-integrare (cioè fornire specificazione pratica) il disposto di fonti primarie; indipendenti (cioè su materie non riservate a fonte primaria); di organizzazione (per specificare l’organizzazione delle Pubbliche Amministrazioni a completamento del disposto di legge); autorizzati (espressamente richiesti dalla fonte primaria che ha dettato regole di principio, rimettendo a successivo regolamento la specificazione).
Va notato altresì che analoghe potestà regolamentari sono riconosciute in capo ai singoli Ministeri per gli ambiti di loro competenza, pur dovendo rispettare il disposto dei regolamenti governativi. Sono poi possibili regolamenti interministeriali.
Possono (e per legge spesso devono) dotarsi di propri regolamenti di organizzazione anche tutti gli Enti pubblici (sottoposti ad approvazione ministeriale).
Inoltre, è riconosciuta potestà regolamentare in capo alle Autorità Indipendenti (ad esempio: AGCM, Garante della Privacy, CONSOB, ISVAP; eccetera), talvolta autonoma (almeno in tema di propria organizzazione), talvolta invece solo sub specie di mera iniziativa o espressione di un parere, essendo però poi necessaria la delibera dell’Esecutivo.
Ancora, è importante in particolare l’autonomia riconosciuta dalla Costituzione alle Università, pertanto dotate di potestà organizzativa nel rispetto delle fonti primarie in materia.
Infine, è riconosciuta una potestà regolamentare finalizzata alla propria organizzazione in capo a vari organi costituzionali dei quali la Costituzione delinea appunto (magari implicitamente, collocandoli al vertice) una certa autonomia, anche se talvolta va esercitata nel rispetto dei principi fissati per legge.
Il caso forse più importante è quello dei regolamenti parlamentari, che assumono una notevole importanza nel funzionamento delle Camere. Anzi, a dire il vero, quelli “generali” sono ritenuti addirittura aventi rango di fonte primaria, quindi solo quelli “minori” (ad essi subordinati) avrebbero grado di fonte secondaria.
Vi sono poi, ad esempio: i regolamenti della Corte Costituzionale, quelli della Presidenza della Repubblica, quelli del Consiglio Supremo di Difesa, quelli interni del Consiglio dei Ministri, quelli del CSM, quelli del CNEL.
FONTI FATTO.
Le fonti del diritto non scritte.
Intuitivamente pensiamo che una norma cogente debba essere per forza scritta. In realtà, sia per continuità con una certa tradizione giuridica, sia per ragioni pratiche, è opportuno ritenere vigenti anche alcune norme non scritte ma la cui esistenza è comunemente accettata. Si tratta delle c.d. consuetudini o usi.
La regola di fondo è che non ne sono ammesse di contra legem, cioè in disaccordo con la norma scritta (v. in particolare l’art. 8 delle c.d. preleggi, cioè le premesse al Codice Civile): possono essere solo secundum o praeter legem, ossia integrare un disposto normativo scritto circa aspetti da esso non contemplati espressamente oppure coprire ambiti su cui la norma scritta non si è per nulla pronunciata.
La consuetudine si forma e diventa cogente (distinguendosi dalla pura e semplice prassi) quando ricorrono sia un elemeno oggettivo, cioè la uniforme e costante ripetizione nel tempo di quel dato comportamento da parte dei soggetti interessati, sia un elemento soggettivo, cioè la convinzione comune che quel comportamento sia giuridicamente obbligatorio. Di solito la consuetudine costituzionale si forma anche con un numero limitato di ripetizioni, visto che certe situazioni si verificano di rado. Proprio tale fatto può rendere più difficile riconoscerle (ad esempio: non sarebbe stato peregrino pensare che fosse sorta la consuetudine costituzionale di non ammettere due mandati di fila da parte di un Presidente della Repubblica, ma il recente caso del Presidente Giorgio Napolitano depone nel senso opposto). Come già detto, inoltre, la consuetudine internazionale entra automaticamente ad integrare il disposto costituzionale ex art. 10 Cost. (pur non potendone mai intaccare il “nucleo duro”).
Non sono vere e proprie fonti normative dell’Ordinamento tutte le altre pseudo-regole di fatto che non possiedono i suddetti requisiti (semplici prassi, meri precedenti, forme di correttezza istituzionale, convenzioni politiche). Quindi è vero che possono assumere un rilievo anche in valutazioni di carattere giuridico (ad esempio, quali parametri tenuti in considerazione dal Giudice nel valutare un legittimo affidamento o se un comportamento sia rispettoso del canone della buona fede oppure no), ma non quali fonti (dirette) oggettive del diritto.
FONTI CONTRATTUALI.
La contrattualistica, non vera fonte del diritto.
Nel nostro attuale Ordinamento le fonti di origine contrattuale, in quanto fonti privatistiche, non sono vere e proprie fonti normative o fonti oggettive del diritto in senso stretto.
Infatti, è vero che il contratto individuale (ad esempio, stipulato tra Tizio e Caio) secondo il Codice Civile “ha forza di legge”, ma ciò è vero solo “tra le parti” e quindi “non produce effetti rispetto a terzi” (art. 1372 c.c.). Insomma, se anche con esso i contraenti volessero disciplinare una molteplicità di future situazioni (ad esempio, si pensi alle le clausole generali che si applicheranno a tutti i futuri contratti tra Tizio e Caio) comunque il contratto riguarda solo alcuni specifici contraenti ed un contesto ben circoscritto, ossia particolare (per quanto ampio) e non relativo alla generalità dei consociati.
Lo stesso va detto, almeno per ora, con riferimento ai contratti collettivi di diritto del lavoro (eccezion fatta per il settore pubblico). Infatti, oggi non esiste più l’ordinamento corporativo del regime fascista, perciò quando le associazioni sindacali stipulano un contratto collettivo vincolano solo i propri aderenti. Oppure se ai contratti collettivi si vincola un soggetto esterno è perché vi aderisce spontaneamente. Solo in tali casi, insomma, accade che i contratti individuali non possano contraddire i contratti collettivi. Poi, è vero che in via di fatto e tramite alcuni escamoutages certe disposizioni collettive finiscono per trovare applicazione giurisprudenziale più estesa, ma ciò non accade perché vi sia cogenza diretta verso la collettività generale (ad esempio, i Giudici chiamati a riconoscere l’adeguata retribuzione in capo al lavoratore di fatto parametrano la valutazione ai contratti collettivi del settore anche se sono chiamati a valutare la posizione di lavoratori e datori di lavoro non direttamente vincolati).
Ciò nonostante, i contratti collettivi meritano menzione in questa sede in quanto la Costituzione ammette la teorica possibilità (art. 39, c. 4 Cost.) che gli stessi trovino efficacia erga omnes. Questo potrebbe accadere laddove le associazioni sindacali stipulanti fossero registrate in un apposito registro secondo specifiche disposizioni di legge che il Parlamento avrebbe dovuto varare. Tuttavia, le legge attuativa della norma costituzionale in questione non è mai stata promulgata, sia per oggettive difficoltà già sul piano teorico (è arduo conciliare la libertà sindacale con l‘imposizione di determinati requisiti e la discriminazione tra sindacati in grado di vincolare tutti e altri non in grado di farlo), sia per volontà contraria degli stessi sindacati sin dal passato (solo recentemente oggetto di ripensamenti).
IN COLLABORAZIONE CON:

Dott. Rinaldo Stefano Miceli
Medico Chirurgo, laureatosi presso l’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna ed iscritto all’Ordine dei Medici e Chirurghi ed Odontoiatri di Bologna.
Il presente contibuto è stato redatto a quattro mani, dall’Avv. Michele Mancini e dal Dott. Rinaldo Stefano Miceli, Medico laureatosi presso l’Università di Bologna.
Questo nell’ambito di una collaborazione multiprofessionale ed interdisciplinare finalizzata ad una maggiore comprensione, tramite un dialogo aperto, su temi trasversali che richiedono un confronto tra diverse competenze ed esperienze.
Auspicando che possa stimolare una migliore partecipazione al dibattito tra tutti gli interessati agli argomenti proposti, restando aperti ad eventuali suggerimenti e spunti di riflessione.
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