PSICOLOGIA DELLA PROVA TESTIMONIALE E SCIENTIFICA
Come l’errato approccio alle prove cardine di molti processi può allontanare dalla verità.
|
Proseguendo con gli approfondimenti basati sul corso “La Psicologia del Giudicare” di Villa Castelpulci, dopo aver analizzato i principali bias, euristiche ed errori cognitivi, voglio riflettere su come questi si manifestino nella valutazione della prova per testi e della prova scientifica.
Il tema è interessante, se non addirittura preoccupante. Ossia queste fonti di conoscenza dei fatti apparentemente dovrebbero essere tra le più idonee ad avvicinarci alla verità: il racconto per esperienza diretta di chi c’era in quel momento; le risultanze di accertamenti il cui metodo è frutto di validazione scientifica. Tuttavia, in realtà, vari studi ed alcuni casi famosi ci dimostrano che un errato approccio agli stessi può condurci ancora più lontani dal vero di quanto non accadrebbe in loro assenza.
Di seguito trarrò spunto in particolare dagli interventi dei seguenti relatori:
– Prof. Giuliana Mazzoni, University of Hull, Professor in Psychology and Neuroscience, Faculty of Health Sciences, la quale ha approfondito nel corso dei suoi studi il tema della psicologia della testimonianza e ci ha aggiornati sullo stato dell’arte della materia, anche mediante esempi concreti ed un laboratorio mirato;
– Dott. Giuseppe Gennari, Giudice del Tribunale di Milano, in passato con funzioni penali, oggi Giudice Civile della Sez. 9° in materia di famiglia; autore e docente, ha approfondito il tema della prova scientifica e dei criteri corretti per valutarla nel processo.
LA TESTIMONIANZA ED I SUOI PROBLEMI
– Testimonianza quale prova fondamentale –
Spessissimo si sente dire dai pratici del diritto e dagli studiosi delle dinamiche del processo che la prova testimoniale, pur se molto importante per l’esito della causa, è in concreto una delle meno utili per acclarare la realtà dei fatti. Ciò dipende da vari fattori: in quanto la testimonianza viene quasi sempre escussa dopo moltissimo tempo, perché le persone sentite spesso non ricordano o addirittura mentono, nonché considerata la sua forte permeabilità da parte di valutazioni soggettive. Però, benché tutti siano consci di questo, comunque nei fatti la statistica sembra dimostrare che le testimonianze restano l’ago della bilancia dei processi. Tale conclusione è emersa soprattutto dallo studio dei sistemi che fanno ampio uso delle giurie popolari: se c’è un testimone che afferma un fatto, benché ci siano forti elementi certi che ne minano l’attendibilità (ad es.: è accertato che ci vede male e che in quel momento non aveva gli occhiali), comunque nella maggior parte dei casi le giurie tendono a prender per buona quella versione da lui esposta, anche se non suffragata dagli altri elementi probatori disponibili (ad es.: video, foto, reperti, ecc.).
Gli operatori del diritto esperti sono più critici nell’approcciarsi alla testimonianza, ma la tendenza di fondo rimane uguale per tutti: è dimostrato che naturalmente si sovrastima il valore probatorio della dichiarazione del teste rispetto a quanto i dati oggettivi a disposizione dovrebbero far ritenere ragionevole.
– I “temi” principali nel valutare la testimonianza –
Quanto detto è sconfortante: dovremmo forse fare a meno dei testimoni? Per alcuni sistemi processuali si è ritenuto sì. Ad esempio, non si escutono testi nel processo tributario (generando, ad avviso di molti, un notevole pregiudizio per il diritto di difesa del contribuente). Però, a mio avviso, di fronte alla complessità la risposta del sistema non può essere desistere, in particolar modo laddove sono in gioco valori fondamentali e quindi la strenua ricerca della verità è necessaria per evitare errori imperdonabili (considerazione vera soprattutto nel processo penale). Piuttosto occorre tentare di dotarsi il più possibile degli strumenti giusti per affrontarla, senza privarsi a priori di alcuna fonte di prova.
Allora, innanzitutto, è bene tenere a mente quali sono gli aspetti fondamentali da considerare nel valutare la testimonianza:
– percezione e attenzione → il teste non “vede” tutto ciò che i suoi occhi guardano, perché la sua visione è filtrata a seconda di dove si concentra l’attenzione e di quali schemi percettivi possiede;
– memoria → ciò che è stato “visto” a suo tempo viene ulteriormente ridotto o addirittura modificato dai processi che regolano la formazione, la conservazione ed il recupero successivo dei ricordi;
– attendibilità e credibilità → al di là dell’effettiva onestà, bisogna considerare secondo parametri oggettivi (ad es.: età, condizioni personali, situazioni contingenti che potrebbero rendere più difficile una corretta percezione come il forte buio o la grande paura, ecc.) quanto la deposizione in sé sia attendibile; poi bisogna riconoscere e valutare criticamente quegli ulteriori fattori che incidono (magari facendoci sbagliare) sulla nostra stessa valutazione di maggiore o minore credibilità (ad es.: naturale -ma spesso infondata- tendenza a considerare più credibile chi espone con sicurezza e serenità);
– decision making → al di là di tutto questo, nel valutare la testimonianza (che di per sé è l’esito di un processo valutativo e deliberativo da parte del testimone) occorre ricordare che c’è un ulteriore procedimento di formazione di una determinazione che può essere viziato da bias, cioè quello del valutatore finale stesso.
Insomma, scindendo la valutazione della testimonianza nell’esame di tutti questi singoli elementi è più facile trarne conclusioni critiche, piuttosto che affrettate (e quindi spesso in contrasto, almeno parziale, con la verità storica).
– Focus: la percezione –
Come accennato sopra, vedere non è affatto un’attività neutra.
C’è un famoso test che lo dimostra e che provo a sottoporre ai lettori. Nel momento in cui scrivo lo si trova su Youtube. Provate a farlo: bisogna contare quanti passaggi effettuano col pallone da basket i giocatori con la maglia bianca. Occorre concentrarsi perché in campo ci sono anche vari giocatori vestiti di nero che a loro volta si passano un secondo pallone. Per contare correttamente i passaggi dei giocatori in bianco è insomma necessario focalizzare l’attenzione solo su quanto rileva per svolgere il compito ed inevitabilmente l’attenzione per tutto il resto cala drasticamente.
L’attenzione è quindi selettiva perché di ciò che guardiamo vediamo una piccola parte. Questo succede di continuo: ad esempio, se sono concentrato sui cartelli coi nomi delle vie per orientarmi in un quartiere sconosciuto non presto attenzione ai volti di chi mi passa a pochi centimetri. Da tale considerazione emerge una prima regola pratica: chiedere ad un testimone se qualcosa o qualcuno non c’era, in caso di risposta affermativa, genera un esito di valore probatorio assai minore rispetto a chiedere e sentirsi rispondere affermativamente che qualcosa o qualcuno c’era. Esempio concreto: può accadere che la vittima ricordi benissimo la pistola puntata verso di lei (oggetto percepito come fonte di pericolo che attirava tutta l’attenzione), ma non chi la impugnava ed i suoi complici nonostante si trovassero di fronte e a pochi centimetri. La difesa degli imputati proverà a giovarsi del fatto che la vittima non abbia ricordato immediatamente i volti di quelle persone, ma in realtà in un caso simile ciò non dimostra affatto che non si trattasse proprio di loro! Anzi, nel processo civile vige la regola “negata non sunt probata”, cioè non si possono proprio formulare domande negative, ossia che mirino a far negare una circostanza di fatto piuttosto che ad affermarne una.
Comunque non si tratta solo di una questione di attenzione selettiva, ma anche di un problema di “scorciatoie” e in generale di funzionamento dei nostri sistemi percettivi. Tutti noi conosciamo svariati giochi che ci dimostrano come possiamo cadere facilmente vittime di illusioni ottiche/percettive (ad es., è famoso quello in cui percepiamo come di lunghezze diverse linee in realtà lunghe uguali per il semplice fatto che alle estremità si trovano segmenti rivolti in un lato o nell’altro).
(L'illusione di Müller-Lyer)
Anzi, spesso, pur se consci dell’erroneità della percezione comunque non possiamo fare a meno di essere soggetti ad essa: possiamo solo dire a noi stessi che è sbagliata e quindi sforzarci di non basare le nostre determinazioni su di quella, pur continuando ad esserne vittime.
In generale, quindi, dobbiamo tenere a mente che ciò che il testimone vede dipende in gran parte da quale “set percettivo” utilizza nell’accostarsi a quella scena. Egli tenderà infatti a vedere in maniera fortemente influenzata dalla sua aspettativa e previsione di cosa dovrebbe a proprio avviso vedere (ad es: i caratteri “I 3” tra loro accostati verranno percepiti come una lettera “B” se inclusi in una serie di lettere, ma come numero “13” se inclusi in una serie di cifre). Un esempio pratico pertinente ad un possibile processo? Il testimone di un’aggressione svoltasi in pochi secondi e con l’aggressore immediatamente fuggito potrebbe essere più indotto a percepirlo come straniero se si trattava di un locale frequentato quasi solo da stranieri. Il tutto benché magari in altre circostanze non avrebbe mai tratto una simile conclusione sulla base della mera fisionomia dell’uomo. Un esempio tratto da casi concreti? Studi sugli errori giudiziari negli USA dimostrano che, basandosi sul “set percettivo” che un certo tipo di criminalità sia più diffusa tra gli afro-americani, si determina una maggior incidenza di testimonianze e di decisioni errate a danno di persone afro-americane per quel tipo di reati.
– Focus 2: la memoria –
Ciò che è stato visto ieri viene fissato nella memoria per poter essere rievocato (e testimoniato) oggi. Però nel farlo ci sono vari problemi:
1) si fissa meglio ciò che più ha attratto la nostra attenzione, soprattutto se ci concentravamo per memorizzarlo, si fissa molto meno il resto;
2) il tempo è nemico della memoria e trascorsi anche solo 20 minuti abbiamo già perso una enorme mole di informazioni (ad es.: le sommarie informazioni raccolte in sede di indagini potrebbero essere più attendibili della deposizione resa dopo anni nel processo; chiaro però che molto dipende anche dalla modalità di verbalizzazione originaria);
3) quei “buchi” di memoria vengono riempiti da altro, in particolare dall’operare delle nostre scorciatoie mentali (ad es: in test in cui si mostrano molte immagini e poi si chiede di dire se alcune erano state effettivamente mostrate, il candidato tende a dire di aver visto un’immagine mai mostrata se essa funge da connessione logica tra la prima e la seconda effettivamente mostrate) o, ancora peggio, da dettagli e spiegazioni suggeriti da altri (aspetto estremamente problematico soprattutto nei bambini, le cui deposizioni sono spesso prive di qualsivoglia utilità se c’è già stata discussione dei fatti con esaminatori non esperti).
Vari studi dimostrano addirittura che, in certe circostanze, è relativamente agevole creare falsi ricordi.
– Il corretto esame del testimone –
Da tutte queste considerazioni sono emerse varie prassi virtuose e linee-guida che trovano più o meno concordi gli operatori del diritto e gli esperti di psicologia del testimone circa come approcciarsi correttamente all’esame del teste. Tra le molteplici indicazioni ne riporto alcune delle più significative.
– Va favorito il ricordo libero (una buona domanda è: “Mi racconti cos’è successo”), perché più l’esaminatore stesso aggiunge informazioni e più cala l’attendibilità, anche se apparentemente la deposizione diventa più ricca (cioè, rispetto all’esempio precedente, sarebbe meno attendibile la risposta ad un domanda con suggerimento come “mi racconti cosa è successo il giorno in cui Tizio ha aggredito Caio con una spranga”; ancor meno attendibile è il riconoscimento, da fotografia o di persona, di un soggetto o di una cosa non ricordati da zero, ma messi a disposizione per essere identificati in via di conferma).
– Vanno evitati termini suggestivi (ad es.: domandare a più riprese al teste dello “scontro” tra veicoli ha un effetto diverso dal chiedergli del “contatto” tra quelle vetture).
– Vanno evitati feedback al teste, cioè il lasciar trasparire ad esempio approvazione o disapprovazione per ciò che dice.
– Vanno evitati i ricatti verbali (ad es.: come mai lei non ha visto quel che han visto tutti gli altri?).
– Non vanno ripetute le domande di fronte alla risposta negativa o “non ricordo” da parte del teste (è dimostrato che la ripetizione e l’insistenza possono indurre a deporre circostanze che il teste non avrebbe altrimenti spontaneamente riferito).
In generale, poi, l’esaminatore deve tenere ben distinti i due piani suddetti dell’attendibilità della testimonianza e della credibilità. Ad esempio, negli USA è prassi istruire chi dovrà deporre affinché la deposizione risulti il più possibile attendibile (ad es.: evitare contraddizioni, prepararsi alle domande trabocchetto, ecc.), ma questo nulla dice effettivamente sulla sua credibilità.
LA PROVA SCIENTIFICA ED I SUOI PROBLEMI
– Il rischio della pigrizia mentale –
La prova scientifica non dovrebbe poter mentire. La scienza è scienza. Ad esempio, tutti pensiamo che la “prova del nove” per eccellenza, il test del DNA, dovrebbe fungere da dimostrazione inconfutabile. Però, a ben vedere, “scientifica” non è tanto la prova (che, a seconda dell’accezione, è o il mezzo con cui si cerca di ricostruire una verità o l’esito di quella ricerca), bensì “scientifico” è sempre un metodo (in questo caso, il metodo di quella ricerca). Se cioè i ritrovati scientifici suggeriscono che con una determinata strumentazione e seguendo un certo insieme di passaggi si possano ottenere dei risultati ritenuti statisticamente attendibili e quindi, in qualche modo, probanti, ciò non significa che il fattore umano sia irrilevante. Tutt’altro! Infatti, in fin dei conti, la reale efficacia probante della prova che definiamo scientifica dipende dal rigore del metodo applicato dalla persona che conduce i test e che poi ne valuta gli esiti.
In particolare, si è visto che c’è una forte tendenza a dare per scontato che tutto ciò che si ricollega (magari a sproposito e solo a parole) al concetto di scienza assuma in sé un’efficacia probatoria particolarmente privilegiata a prescindere dal modo in cui quelle linee guida, quei protocolli, quegli standard “scientifici” sono stati prima creati, poi applicati al caso concreto, infine valutati in correlazione agli esiti. E’ quindi essenziale che tutti i protagonisti del processo, Giudici in particolare, non si accostino alla prova scientifica come ad una verità rivelata, bensì lo facciano tenendo alta l’attenzione critica e pretendendo il rispetto di standard rigorosi.
– Errata concezione della prova scientifica e decisioni sbagliate-
Venendo al pratico, ci si è accorti che in molti casi l’aver preso per buone (e sostanzialmente incontestabili) prove cosiddette scientifiche senza aver realmente valutato e/o capito il metodo che vi dovrebbe presiedere ha portato a gravi errori di valutazione e addirittura ad ingiuste condanne o comunque detenzioni.
Famoso è il c.d. NAS-NRC Report del 2009, voluto dal Congresso degli U.S.A., che dopo aver passato in approfondita rassegna tutte le principali prove scientifiche utilizzate nelle Corti statunitensi (DNA, impronte digitali, odontologia forense, residui di incendio, ecc.) rilevò gravi problematiche nel concreto utilizzo quotidiano tali da gettare forti ombre sulla loro effettiva efficacia probatoria (ad es.: incidenza dell’errore umano; laboratori non autonomi ed indipendenti; mancanza di procedure e terminologie standardizzate; mancanza di adeguate ricerche in merito al grado di fallibilità; ecc.). Insomma, come ha scritto il summenzionato relatore del convegno Dott. Giuseppe Gennari in un suo libro (“Nuove e vecchie scienze forensi alla prova delle corti”), dal rapporto sembrava emergere che “nelle scienze forensi quello che manca è la scienza”. Perciò il rapporto enucleava una serie di raccomandazioni volte a provare a correggere tali problematiche.
Ancora più celebre è diventato poi il caso della bomba sul treno di Madrid del 2004. Fu trovata un’impronta digitale non nota ai sistemi interni spagnoli, perciò fu diffusa tramite Interpol. Da tale ricerca più estesa emerse una apparente corrispondenza con l’impronta di un cittadino statunitense. Addirittura tre diversi esperti si dichiararono certi che l’impronta fosse sua, come confermato dal consulente del Giudice. Poi, però, dopo il suo arresto, le Autorità spagnole trovarono una corrispondenza più “certa” in un altra persona, infine effettivamente riconosciuta colpevole. A posteriori si scoprì che lo sbaglio (assai problematico per il malcapitato) era stato determinato da una errata valutazione soggettiva da parte dell’operatore che aveva originariamente inserito nel sistema l’impronta. Infatti tale sistema mediante il proprio algoritmo illumina le parti del reperto che ritiene caratteristiche, ma è poi l’operatore umano a scegliere quali evidenziazioni mantenere e quali no. L’operatore aveva inserito solo una parte dell’impronta che, così come acquisita, effettivamente sembrava coincidere con quella del cittadino statunitense; però l’altra parte, non contemplata, era invece difforme. Pare aver operato un bias di conferma con ragionamento circolare: ci si è mossi nel senso di partire dall’impronta già schedata per cercare corrispondenze nell’impronta (o, meglio, nel suo frammento) trovata sul reperto, così prescindendo acriticamente da un dato fondamentale (cioè la possibilità che il restante frammento dell’impronta escludesse la corrispondenza). Il tutto sospinti dal contesto che creava una forte pressione emotiva nel senso di trovare in fretta un colpevole da punire.
– Come prevenire tali problemi –
Il modo per evitare simili errori è oggetto di specifici ed approfonditi studi da parte di esperti della materia, quindi non posso certo avere risposte esaurienti sul punto io ed in questo resoconto. Ciò che posso fare è però tirare le somme del discorso e rimandare a fonti più autorevoli.
Quello che abbiamo assodato è che la prova scientifica, apparentemente foriera di soli grandi benefici, se mal approcciata può portare ad errori ancora più gravi di quelli che si commettevano prima del progresso scientifico-tecnologico (ad es., prima dei database internazionali di impronte digitali nessuno si sarebbe sognato di individuare negli USA il presunto bombarolo di Madrid). Anzi, più progredisce la strumentazione e più si rischia di incappare in errori cognitivi e/o metodologici, ampliando il margine di discrezionalità e l‘importanza di un lavoro attento (ad es.: una volta il campione genetico era analizzabile solo se di un certo rilievo e “puro”, ma quindi anche più facilmente valutabile in modo abbastanza univoco; oggi invece sono analizzabili anche campioni assai esigui e non “puri”, però così rendendo molto più determinante il fattore umano e più difficile accorgersi di errori applicativi, come contaminazioni di laboratorio).
Quanto alle indicazioni operative, dal convegno è emersa l’importanza: di mantenere sempre alta l’attenzione critica; di conoscere (benché giuristi) la materia statistica; di porre al tecnico incaricato la domanda giusta, cioè cercando di ottenere da lui non la risposta “certa” (ad es: l’impronta appartiene a Tizio o a Caio o a Sempronio), ma l’esplicitazione del confronto tra le diverse tesi in campo chiarendo quale è la più supportata dall’evidenza scientifica disponibile in termini di probabilità ed in che misura; di vigilare sul rispetto delle buone prassi, linee-guida e degli standard riconosciuti (ad es., si vedano il “Daubert standard”, volto a valutare il grado di scientificità, o le “ENFSI Guidelines” volte a chiarire come impostare correttamente il quesito al tecnico da parte del Giudice).
* * *
– 1° APPRONODIMENTO: “Bias, euristiche, errori cognitivi”.
– CONCLUSIONI: (sarà pubblicato prossimamente).
Lascia un commento