Mantenimento del figlio maggiorenne.
Focus sull’attuale stato della giurisprudenza circa i presupposti ed i limiti temporali del dovere di mantenimento dei figli ormai maggiorenni, in particolare alla luce della sentenza n. 17183/20 della Suprema Corte di Cassazione.
Tutti diamo per scontato che i genitori siano tenuti a mantenere i propri figli, almeno fintanto che questi sono minorenni e, in quanto tali, (quasi) sicuramente impossibilitati a mantenersi. In molti poi sanno che tale obbligo può perdurare (e finora si è spesso e volentieri trattato della regola, non dell’eccezione) anche per anni dopo che i figli siano già divenuti maggiorenni ma ancora non abbiano adeguati mezzi propri per mantenersi.
Fino a quando però, più di preciso, sopravvive questo diritto in capo al figlio (e dovere in capo al genitore)? Proviamo a fare un po’ di chiarezza sul punto con l’aiuto di una recente interessante pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, la numero 17183/20.
QUALCHE PREMESSA.
Per introdurre il discorso è opportuna qualche sintetica precisazione.
Il quadro di partenza
Per non creare equivoci è importante premettere una precisazione di fondo. Oggetto di questo approfondimento è solo il diritto al mantenimento, non il diritto agli alimenti. Sono infatti istituti assai diversi (per presupposti, legittimati ed entità) che però vengono spesso confusi nel parlare comune.
Riassumendo e semplificando al massimo, potremmo dire che il diritto agli alimenti è il diritto ad ottenere sotto forma di danaro o anche in natura (ad esempio, garantendo materialmente vitto ed alloggio) quel minimo di mezzi necessari per garantirsi il vero e proprio sostentamento in assenza del quale non si sopravviverebbe (o non a condizioni dignitose). Gli alimenti sono cioè volti a garantire lo stretto necessario e per legge possono essere richiesti ad una limitata cerchia di prossimi congiunti secondo un determinato ordine (se il primo di questi non esiste o è deceduto o è impossibilitato ci si rivolge al secondo, poi al terzo e così via).
Il mantenimento è invece il diritto ad ottenere qualcosa di più dal punto di vista quantitativo, perché è un concetto che si lega alla considerazione di un determinato tenore di vita (superiore allo stretto necessario per sopravvivere) che si intende garantire al beneficiario. Inoltre, è un concetto che (come si dirà oltre) si ricollega anche a ben differenti ragioni di fondo alla base della pretesa.
Sono intervenute due importanti riforme in materia: la legge n. 54/2006 ed il d.lgs. n. 154/2013. Prima del 2006 era già pressoché unanime e consolidata l’opinione che il dovere di mantenere il figlio perdurasse anche dopo la maggiore età di quest’ultimo e fino al momento in cui egli non fosse diventato “economicamente autosufficiente”. L’eccezione si aveva nel caso in cui il figlio stesso si fosse reso colpevole di tale mancato raggiungimento dell’autosufficienza, così facendo venir meno il proprio diritto a percepire il mantenimento dai genitori.
Si può però aggiungere che l’interpretazione di tali principi tendeva a favorire non poco i figli e la “colpa” suddetta veniva accertata abbastanza di rado nelle sentenze. In primo luogo, si poneva in capo al genitore stesso che voleva liberarsi del dovere di versare l’assegno l’onere di provare tale colpa da parte del figlio beneficiario. Inoltre, essenzialmente, si riteneva del tutto normale che il figlio attendesse (senza per ciò poterlo ritenere in colpa) un impiego sufficientemente promettente ed in linea con le sue aspirazioni, attitudini e percorso di studi, cosicché spesso si riteneva ancora dovuto il mantenimento laddove il figlio stesse ancora studiando o non avesse ancora trovato un impiego coerente con i suoi titoli di studio e altresì nel caso in cui fosse già entrato nel mondo del lavoro ma si trattasse di impieghi considerati non sufficientemente sicuri/stabili/remunerativi (ad esempio, ove fosse già stato assunto, ma solo a termine). Addirittura era ben possibile che un figlio già sposato e che aveva già creato il proprio distinto nucleo famigliare conservasse il diritto ad essere mantenuto dai genitori.
La riforma del 2006 (recante l’art. 155-quinquies c.c.), a seguito dei primi circoscritti dubbi interpretativi, veniva infine intesa come intervenuta sostanzialmente a conferma dei suddetti principi, ma con una specificazione. L’assegno sarebbe stato sicuramente invocabile anche da parte del figlio maggiorenne, di per sé, direttamente nei confronti del genitore obbligato, cioè senza dover passare necessariamente per l’altro genitore (dichiarato collocatario quando il figlio era ancora minorenne), ossia senza necessità che il genitore con cui il figlio ancora conviveva dovesse chiedere per suo conto tale mantenimento all’altro genitore. Veniva inoltre opportunamente introdotta una parificazione ex lege del figlio maggiorenne portatore dihandicap grave al figlio minorenne ai fini del mantenimento.
La riforma del 2013, invece, spostava sostanzialmente la disciplina suddetta in una nuova norma (art. 337-septies c.c.) e di nuovo si finiva per interpretare la disposizione in linea con le interpretazioni già formatesi: per far venir meno l’assegno si riteneva necessario l’emergere di un vero e proprio “rifiuto al lavoro” da parte del figlio. Va comunque notato che un aspetto lessicale importante per l’evolversi delle interpretazione era già allora ed è tuttora, in particolare, la parola “può” riferita al potere del Giudice di riconoscere l’assegno al figlio già maggiorenne. Infatti è proprio nell’individuazione dei parametri secondo cui esercitare tale discrezionalità che si concentra il fulcro della sentenza in commento.
Le pregresse remore dei Tribunali nel privare dell’assegno di mantenimento i figli maggiorenni pur laddove già maturi e per ogni altro aspetto autonomi si giustificavano sia in ragione del principio (in realtà non univoco) per cui, una volta tolto, l’assegno non sarebbe più stato suscettibile di reviviscenza, sia in virtù del diverso quadro socio-economico del passato. Cioè in un primo momento era normale pensare, ad esempio, che permettere al figlio di conseguire (anche se fuori corso) una laurea e consentirgli di attendere un impiego ben in linea con gli studi ultimati fosse assolutamente opportuno, perché la laurea garantiva buoni impieghi e perciò il sacrificio che gli si sarebbe imposto precludendogli tale traguardo appariva sproporzionato rispetto al sacrificio dei genitori di mantenerlo qualche anno in più. In un secondo momento poi, sempre rimanendo nell’ambito dello stesso esempio, le generalizzate difficoltà nel trovare un impiego parevano giustificare periodi di studi più lunghi e/o specializzazioni aggiuntive, per assicurare al figlio (già ampiamente maggiorenne) quel qualcosa in più che l’avrebbe aiutato a coronare i propri obiettivi di carriera. Inoltre, in generale, la stessa possibilità materiale delle famiglie di mantenere a lungo i figli rendeva meno pressante la necessità che si rendessero autosufficienti.
Oggi la situazione è assai differente. Ormai è ben noto che nell’attuale contesto socio-economico per reperire un buon impiego non importa tanto il titolo di studio quanto la pertinenza delle competenze acquisite rispetto alle posizioni lavorative effettivamente disponibili. Anzi, spesso e volentieri risulta favorito chi è entrato prima nel mondo del lavoro, così acquisendo maggiore esperienza pratica, rispetto a chi ha continuato a studiare più a lungo. Inoltre, in generale, le stesse possibilità economiche dei genitori appaiono andar nel senso di erodersi sempre più, cosicché il peso del mancato o tardivo inserimento dei giovani nel mondo del lavoro può gravare sempre meno sulle loro spalle.
LA SENTENZA CASS. CIV., N. 17183/20.
La sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 17183/20, depositata il 14 agosto 2020, costituisce un tassello fondamentale nel panorama giurisprudenziale relativo alla materia in esame. Vediamo perchè.
Contenuti della sentenza
Per esempio, già pronunce passate avevano evidenziato: che il rigore nel valutare l’impegno del figlio deve essere progressivamente crescente al crescere dell’età; che il mantenimento si lega anche al compito educativo dei genitori, tant’è che non si può finire per renderlo un diseducativo incentivo al lassismo; che il percorso intrapreso dal figlio deve poter essere materialmente compatibile con le condizioni economiche dei genitori affinché sia giustificato il suo perseguimento a spese di questi ultimi; che contrarre matrimonio implica un’autonomia incompatibile con la pretesa di essere mantenuti dai genitori; che protrarre il mantenimento di un figlio oltre tali limiti implicherebbe un’inaccettabile disparità di trattamento rispetto all’altro resosi autonomo in tempi consoni; che le eventuali ampie possibilità economiche dei genitori di per sé non determinano alcun diritto di mantenimento in capo al figlio che sia di fatto già economicamente autosufficiente, anche se con le proprie sole forze egli percepisce retribuzioni inferiori rispetto a quanto potrebbe versargli la famiglia d’origine; eccetera.
In un interessante passaggio la sentenza ricorda altresì come il “principio dell’autoresponsabilità” sia già stato fortemente valorizzato in altri ambiti del diritto, motivo in più per sancirlo con determinazione anche nella presente materia.
Ciò posto, la Cassazione precisa che il concetto di indipendenza economica va ricondotto, a mente dell’art. 36 Cost., alla possibilità di percepire una retribuzione idonea a consentire un’esistenza dignitosa, ricordando peraltro che la stessa Costituzione fonda la Repubblica “sul lavoro”. Poi aggiunge che, se davvero il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne in capo ai genitori è correlato al dovere educativo di questi ultimi, allora il primo può ritenersi ancora giustificato (in un momento in cui i genitori non hanno più alcun potere disciplinare/rappresentativo sul figlio) solo se il beneficiario si impegna attivamente e seriamente nella ricerca di un impiego o almeno nella formazione ad esso preordinata. Altrimenti si concreterebbe una situazione di abuso del diritto. Perciò, pur in assenza di un preciso limite legislativo numerico di anni d’età al raggiungimento della quale il mantenimento debba venir senz’altro meno, bisognerà valutare caso per caso quale sia la capacità lavorativa del figlio.
Qui la Cassazione opera una puntualizzazione fondamentale ed assolutamente dirompente: la capacità lavorativa si acquisisce di norma alla maggiore età e solo se ricorrono in concreto circostanze di segno differente la si potrà ritenere ancora non raggiunta (tant’è che per legge lo stesso figlio è gravato dall’obbligo di contribuire al mantenimento della famiglia convivente secondo proprie capacità). In altri termini, il venir meno del presupposto del mantenimento al raggiungimento del diciottesimo anno di vita va considerato la norma e non l’eccezione!
L’età in sé deve quindi necessariamente rilevare ai fini della cessazione del diritto al mantenimento, tanto più laddove sia stata raggiunta quell’età in cui la società tende a riconoscere il soggetto come sufficientemente maturo da non sottostare più alle istruzioni dei genitori.
Per quanto riguarda poi il percorso di studi ancora in corso, esso non può mai generare di per sé il diritto a continuare ad essere mantenuti: al contrario il mantenimento potrà perdurare solo fintanto che non si sia concluso quel percorso di studi sufficiente a trovare (non lo specifico impiego desiderato, bensì) un qualche lavoro che garantisca l’indipendenza economica. Ciò, poi, con la precisazione che più è proficuo l’impegno negli studi e più bisognerà favorire il figlio protraendo la durata del mantenimento; al contrario, più risulta una mancanza di diligenza più ciò deporrà a sfavore del figlio che pretenda il mantenimento.
Terminati gli studi potrà dunque essere concesso solo un ragionevole lasso di tempo per realizzare l‘inserimento nel mondo del lavoro, ma nulla di più (salvo oggettivi impedimenti, come ad esempio condizioni di salute gravi).
Infine, la Suprema Corte affronta un ultimo fondamentale passaggio laddove chiarisce (scostandosi da quanto affermato in passato) gli oneri della prova in corso di causa: non spetta al genitore dimostrare che il figlio è in colpa; spetta al contrario al figlio che voglia ottenere il mantenimento pur essendo già maggiorenne dimostrare in giudizio di non essere ancora economicamente indipendente e, altresì, di essersi impegnato con ogni possibile sforzo a formarsi ed a reperire un impiego. L’onere di fornire la suddetta prova sarà poi tanto più tenue quanto più si sia ancora prossimi al diciottesimo anno di età e tanto più gravoso quanto più il richiedente sia maturo ed in là con gli anni. Laddove il figlio non assolva tale onere probatorio egli non potrà ottenere la condanna dei genitori al versamento dell’assegno di mantenimento (salvo questi intendano spontaneamente versarlo).
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