INCOSTITUZIONALITA’ DEL LICENZIAMENTO SECONDO “JOBS ACT”.
La pronuncia della Corte Costituzionale n. 194/18 sulle tutele in caso di licenziamento.
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La recentissima sentenza della Consulta n. 194/18 ha dichiarato incostituzionale parte (non tutto, ciò è importante) dell’impianto del c.d. Jobs Act in tema di licenziamento.
Di seguito una prima analisi della sentenza ed un sintetico commento a caldo.
PREMESSA: LA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO.
– Mai arbitrio, ma tutele diverse a seconda dei casi –
Occorre innanzitutto inquadrare la questione. Ripercorrere diffusamente tutta la disciplina vigente in tema di licenziamento sarebbe insensato in questa sede, perciò mi limito ad alcuni cenni.
Vige sempre il principio per cui il licenziamento deve essere motivato e non arbitrario. Cioè deve sussistere la giusta causa (condotta che assolutamente rende impossibile proseguire il rapporto; ad es: un’aggressione fisica al datore di lavoro) o il giustificato motivo, soggettivo (ad es.: il dipendente si rifiuta senza giustificazioni di lavorare) o oggettivo (ad es: l’azienda non ha più bisogno di qualcuno che svolga quella determinata mansione).
L’onere della prova spetta sempre al datore di lavoro e vanno rispettati alcuni requisiti formali.
Tuttavia, a seconda delle ipotesi concrete, le tutele offerte al lavoratore licenziato illegittimamente sono diverse.
– Vecchio regime: Articolo 18 vs. tutela obbligatoria –
In estrema sintesi, si può dire che nella “vecchia” disciplina (prima del 2012) si distingueva in caso di licenziamento illegittimo tra una tutela solo “obbligatoria” (l. 604/66) ed una tutela “reale” (art. 18, l. 300/70, c.d. Statuto dei Lavoratori). La prima era di carattere solo risarcitorio (salvo che nel licenziamento discriminatorio o radicalmente nullo) ed applicabile ai dipendenti delle aziende più piccole. La seconda consisteva nella concreta reintegrazione nel posto di lavoro con aggiunta di un risarcimento ed era riservata ai dipendenti delle aziende medio-grandi (i famosi più di 15 dipendenti nell’ “unità produttiva”, salvo ulteriori specifici criteri). Inoltre, solo nella seconda ipotesi vi erano particolari garanzie procedurali.
– La c.d. Riforma Fornero del 2012 –
Nel 2012, con la c.d. Riforma Fornero (l. 92/12), il Governo Monti riformò il sistema e la disciplina del licenziamento.
Così anche per i dipendenti un tempo coperti dall’art. 18 St. Lav. si iniziò ad applicare in alcune ipotesi una tutela solo “risarcitoria” (più precisamente indennitaria), tra l’altro secondo parametri diversi da prima. Infatti si distinsero almeno 4 (ma per vari interpreti ben di più) regimi diversi.
– Il c.d. Jobs Act-
Nel 2014-2015 (legge delega e decreto legislativo di recepimenti) ci fu un’ulteriore riforma. Con il c.d. Jobs Act del Governo Renzi, oltre ad incidere sulle procedure, si modificarono presupposti ed entità delle tutele.
Uno dei problemi sentiti dal legislatore era l’avvenuta parziale vanificazione di un segmento della precedente riforma. Va cioè ricordato che la Riforma Fornero aveva sostanzialmente riservato la tutela reale più “forte” ai soli casi più gravi (licenziamento discriminatorio/radicalmente nullo per violazione di alcune norme o per motivo illecito determinante). Poi aveva previsto una tutela reale più “debole” (cioè accompagnata da un’indennità minore) per altri due casi considerati un po’ meno gravi, mentre in tutte le altre ipotesi aveva previsto solo l’indennità, senza reintegra. Ebbene, uno degli spartiacque tra tutela reale (“debole”) e tutela solo indennitaria passava per l’interpretazione del concetto di “insussistenza del fatto contestato” al lavoratore da parte del datore di lavoro, poiché tale ipotesi permetteva di rientrare nella prima forma di tutela.
Intenzione della Riforma Fornero era stata chiaramente quella di impedire discrezionalità in sede di giudizio, ma i Giudici iniziarono ad interpretare la norma nel senso che il “fatto” andasse inteso in senso “giuridico” e non solo “materiale”. Così gran parte dei casi poterono di nuovo dar luogo alla reintegra nel posto di lavoro. Cioè, ad esempio, sarebbe stata in tal modo da applicare la tutela reale non solo se non era vero che Tizio avesse offeso Caio, ma anche se quell’offesa c’era effettivamente stata, ma non sarebbe stato proporzionato ritenerla tanto grave da giustificare un licenziamento.
Il Jobs Act perciò volle chiarire questo aspetto, specificando espressamente che la tutela reale si aveva solo per insussistenza del fatto inteso in senso “materiale”, quindi senza valutazioni in merito alla proporzionalità. Inoltre rimodulò gli importi delle indennità.
– L’intervento del 2018-
Poco dopo il proprio insediamento il Governo Conte intervenne sul quadro normativo esistente, limitandosi (per quanto riguarda le norme in esame) ad aumentare l’importo delle tutele indennitarie in favore del lavoratore.
LA QUESTIONE RIMESSA ALLA CORTE COSTITUZIONALE.
La questione decisa dalla Consulta con la sentenza n. 194/18 è stata sollevata dal Tribunale di Roma, il quale ha chiesto di valutare la compatibilità con la costituzione di una parte dell’impianto esistente per vari motivi.
– Violazione dell’art. 3 Cost.-
Si è lamentata innanzitutto la violazione dei principi di parità di trattamento e di ragionevolezza derivanti dall’art. 3 Cost.
Ciò è avvenuto precisando che si criticava non la sostanza della tutela, ma il meccanismo di determinazione della sua “entità”. Cioè non si è voluta censurare la scelta in sè di aver abolito la reintegra nel posto di lavoro (censura inutile, perché la Corte Costituzionale l’aveva già ritenuta una scelta in astratto legittima). Inoltre non si è criticato l’importo delle indennità perché troppo basso (censura che sarebbe stata troppo “politica” e quasi sicuramente rigettata).
Piuttosto si è obiettato che (come già sancito dalla Consulta in passato) un regime di tutela solo indennitaria sarebbe legittimo solamente ove essa risulti in concreto “adeguata”, requisito ritenuto mancante nella normativa in esame.
Tale adeguatezza sarebbe mancata perché la quantificazione dell’indennità secondo la norma deve avvenire rigidamente ed automaticamente sulla base dell’unico parametro costituito dall’anzianità di servizio (cioè, semplificando, nella forma: “X mensilità di stipendio per ciascun anno lavorato in azienda”). Ebbene, tale parametro di per sè non sarebbe sufficiente a permettere di valutare adeguatamente la situazione di ciascun lavoratore e così ristorare congruamente il pregiudizio effettivamente patito, diverso da caso a caso.
Anzi, si è fatto notare che, facendo i calcoli, con gli sgravi fiscali-contributivi del Jobs Act un datore di lavoro che avesse assunto in quegli anni e poi poco dopo licenziato in maniera palesemente ingiustificata con quella normativa ci avrebbe addirittura guadagnato!
Inoltre si è ritenuto discriminatorio conservare regimi di tutela diversi per licenziamenti aventi la stessa data, solo perché occorsi nell’ambito di rapporti di lavoro di tipo diverso o sorti in epoche distinte. Infatti, pur giudicando tutti nello stesso giorno, la disciplina è diversa ad esempio se si considera il caso del dirigente o dell’operaio; oppure se il lavoratore era stato assunto prima o dopo l’entrata in vigore di una determinata riforma.
– Violazione degli artt. 4 e 45 Cost.-
Ulteriormente il Tribunale di Roma ha sostenuto che una disciplina affetta dai suddetti problemi sarebbe tale da ledere di fatto anche gli artt. 4 e 35 Cost.. Infatti, tutele siffatte non sarebbero in grado di garantire l’effettività del “diritto al lavoro”, nè di assicurare davvero “la tutela” del “lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni“.
– Violazione di impegni internazionali-
Infine, il Tribunale di Roma ha lamentato la violazione di quelle norme della Costituzione che impongono all’Italia di rispettare gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione Europea e dalle convenzioni internazionali. Infatti, la necessità di una tutela adeguata contro il licenziamento sarebbe emersa anche dalla Carta di Nizza dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, dalla Carta Sociale Europea e da una Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.
– Conclusioni del Tribunale di Roma-
Perciò il Tribunale di Roma ha concluso invocando espressamente che dalla dichiarazione di illegittimità scaturisse il ritorno alla disciplina della Riforma Fornero, di fatto elidendo le modifiche apportate (sul punto) dal Jobs Act.
LA DECISIONE DELLA CONSULTA.
– Questioni preliminari-
Preliminarmente, la Corte Costituzionale ha chiarito che non tutti gli aspetti segnalati dal Tribunale di Roma potevano essere valutati.
Infatti le regole sul funzionamento del giudizio di legittimità costituzionale hanno imposto che la Consulta si concentrasse sull’unica norma che poteva essere applicata al caso specifico della lavoratrice esaminato da quel Tribunale. Dunque quanto detto in seguito vale solo per lo specifico caso di cui all’art. 3, c. 1 del d.lgs. 23/15 (“casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa”).
Inoltre quella Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro non è stata ratificata dall’Italia, quindi non poteva essere presa a parametro di costituzionalità.
– Questioni rigettate-
La Corte Costituzionale ha rigettato alcune censure.
Innanzitutto la coesistenza nello stesso momento di regimi diversi è giustificata, posto che tale valutazione di ragionevolezza deve farsi sulla base del fine perseguito dal Legislatore. Col Jobs Act il fine era proprio quello di rendere predeterminabili e meno gravose per il datore di lavoro le conseguenze del licenziamento illegittimo, così da favorire un clima di sicurezza nella pianificazione e, quindi, di stimolo alle nuove assunzioni. Tale schema dal punto di vista giuridico è “ragionevole”. Se poi funzioni o no è questione economico-politica che non può sindacare la Corte Costituzionale stessa.
Inoltre, non è corretto invocare la disparità di trattamento tra dirigenti da un lato ed operai, quadri, impiegati dall’altro. Infatti sono categorie ontologicamente distinte, per cui è legittimo che i primi non godano delle tutele contro il recesso date ai secondi.
Ancora, non si può lamentare la violazione della Carta di Nizza dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Ciò sarebbe ammissibile solo se il Jobs Act avesse inteso recepire norme di diritto dell’Unione Europea, ma così non è stato. Non è poi sufficiente il mero astratto potere dell’Unione Europea di adottare norme in materia.
– Questioni fondate-
Per il resto la Consulta ha accolto le restanti censure sollevate dal Tribunale di Roma (gli altri motivi di contrasto con l’art. 3 Cost e con gli artt. 4 e 35 Cost., nonché il contrasto col disposto della Carta sociale europea).
La Corte ha ricordato il carattere di diritto fondamentale della tutela del diritto al lavoro e contro il licenziamento arbitrario. Infatti, “i limiti posti al potere di recesso del datore di lavoro correggono un disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro”; ossia in un tipo di rapporto in cui vi è “forte coinvolgimento della persona umana – a differenza di quanto accade in altri rapporti di durata”. Ha poi precisato che una tutela solo indennitaria (senza reintegrazione) può essere legittima, ma purché ragionevole, nel senso di essere tale da garantire un equilibrio.
Nella disciplina post Jobs Act tale quilibrio manca.
Innanzitutto discrimina irragionevolmente tra lavoratori aventi la stessa anzianità: secondo il Jobs Act sulla base di questo unico parametro devono ricevere entrambi la stessa identica indennità, ma le loro situazioni concrete ben possono essere assai diverse. Più di preciso, “Il pregiudizio prodotto … dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori. L’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è … solo uno dei tanti”.
Il rilievo di altri fattori emerge dalla stessa legislazione, ad esempio dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966. Tale norma valorizza “numero dei dipendenti occupati, … dimensioni dell’impresa, … anzianità di servizio del prestatore di lavoro, … comportamento e … condizioni delle parti”. Insomma, “All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza. La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse”.
Ciò detto, la Consulta è parsa poi prendersi implicitamente la libertà di criticare nel merito gli importi degli indennizzi previsti dal Legislatore. Infatti ha affermato che l’irragionevolezza si sente in particolare nel caso di lavoratori con pochi anni di servizio, a ristoro del cui pregiudizio non sempre sarebbe sufficientemente satisfattiva “la previsione della misura minima dell’indennità di quattro (e, ora, di sei) mensilità”.
Quindi, in definitiva, il principio di ragionevolezza è violato perché la normativa “non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro”.
Da quanto detto scaturisce poi la violazione pure degli artt. 4 e 35 Cost. e della Carta Sociale Europea. Sul punto (con motivazione ormai assai più sintetica) la Corte ha richiamato essenzialmente quanto già affermato sopra: “…una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa degli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., che tale interesse, appunto, proteggono”. Ha poi aggiunto che la Carta Sociale Europea prescrive l’adeguatezza della tutela contro il licenziamento ingiustificato. Tale tutela passa anche per l’effettiva capacità di dissuadere licenziamenti arbitrari: tale dissuasività nelle norme censurate manca.
– Conclusioni della Corte Costituzionale-
Perciò, in sostanza è stata dichiarata l’illegittimità della sola norma già menzionata (art. 3, c. 1, d.lgs. 23/15), non dell’intera disciplina del Jobs Act, e solo con riferimento alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,».
Quindi il risultato non è il ritorno in vigore per tutti della previgente disciplina della Riforma Fornero, bensì solo la possibilità per il Giudice di valutare discrezionalmente l’importo dell’indennità tra il limite minimo ed il limite massimo suddetti.
Tale valutazione dovrà avvenire tenendo da conto “innanzi tutto dell’anzianità di servizio … nonché degli altri criteri già prima richiamati” e cioè “numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti”.
UN PERSONALE COMMENTO.
– Il rischio di sforare nel campo della politica –
La sentenza è sicuramente scritta con toni molto equilibrati e prova a mantenersi il più possibile nell’ambito prettamente giuridico. Tuttavia, sia per la delicatezza della materia, sia per i punti su cui fa leva, il rischio di invadere il campo d’azione del Legislatore (e quindi della politica) è alto.
In tal senso depongono due circostanze a mio parere.
In primo luogo, si coglie un’implicita critica all’ammontare dell’importo minimo dell’indennità, definito quale in molti casi insufficiente. Tale valutazione (condivisibile o meno che sia) forse esula dall’ambito prettamente giuridico.
In secondo luogo, tutta la sentenza è impostata nel senso di valutare l’istituto del licenziamento in sé e per sé, cioè non come parte di un quadro giuridico più ampio. Non si parla insomma minimamente del coordinamento sistematico con le politiche attive (assistenza al reperimento di un nuovo impiego) e con i sussidi statali (che, va riconosciuto, in effetti oggi non sono granché efficaci nel contrastare gli effetti della disoccupazione). In altri termini, mi chiedo: ma se un domani i servizi dei Centri Per l’Impiego e le tutele economiche corrisposte dallo Stato trovassero davvero un concreto e tangibile avanzamento tale da far sì che il passaggio da un lavoro all’altro sia più semplice e non traumatico, allora questa sentenza resterebbe valida?
Insomma, non vorrei che la Consulta avesse posto un limite senza se è senza ma (illegittimità dell’automatismo nel quantificare l’indennità sulla base dell’anzianità) tale da non poter essere superato nemmeno in un (auspicato futuro) contesto in cui non fosse più concretamente necessario per tutelare il lavoratore. Infatti, il Legislatore negli ultimi anni è stato sempre più orientato nel senso di provare a tutelare non tanto il singolo posto di lavoro, ma la permanenza a condizioni dignitose nel mercato del lavoro complessivamente considerato. L’obiettivo sembra cioè quello (risorse permettendo) di garantire in futuro sussidi adeguati e formazione davvero utile (non fine a sè stessa) affinché il soggetto incolpevolmente disoccupato (cioè non autore di comportamenti opportunistici) trovi (rapidamente) un nuovo impiego.
– Rischio di incertezze ed importanza del ruolo dei Giudici –
La sentenza comporta inevitabilmente un ampiamento dei margini di incertezza circa l’esito delle cause. Infatti, i “criteri” da adottare per spaziare tra il limite minimo ed il limite massimo non sono stati definiti (e non si poteva fare altrimenti) in forma algoritmica (ad es.: “se x = 10, allora y = 27”), lasciando perciò ampio spazio al sentire personale del Giudice.
Quindi torna viva l’esigenza di interpreti formati ed avezzi a tali questioni pratiche, capaci cioè di tradurre in termini numerici (il numero di mensilità riconosciute come indennizzo) il diverso “peso” dei vari fattori del mondo reale da considerarsi. Ad esempio, se è importante come parametro la dimensione dell’azienda, ciò significa che il Giudice dovrà saper valutare fin dove può spingersi senza rischiare di metterla in crisi (con danno per gli altri lavoratori) liquidando in favore del ricorrente un’indennità prossima o pari al limite massimo. Ancora, se è importante il comportamento delle parti, il Giudice dovrà essere equilibrato nell’aumentare o diminuire di conseguenza l’indennità senza premiare o colpevolizzare con eccessivo arbitrio questa o quella condotta. Eccetera.
Chissà poi che i singoli Tribunali non creino delle “tabelle” con parametri matematici più precisi per provare a rendere meno imprevedibile l’esito del giudizio, in modo simile a quanto accade per i risarcimenti dei danni nelle altre cause civili.
– Non era una scelta obbligata –
Circa la bontà o meno della decisione è difficile esprimersi e forse farlo suonerebbe arrogante. Ritengo solo personalmente che l’esiguità o meno del risarcimento (o, meglio, indennità) in sè e per sè (anche come risultante dall’automatismo suddetto) non sia determinante nello stabilire se il lavoratore è adeguatamente tutelato o no. Lo è solo in un sistema in cui le tutele pubbliche (sussidi di sostegno al reddito, politiche attive, eccetera) non riescono ad affiancare efficacemente quelle una tantum di fonte privata, cosicché la maggior parte dei “paracadute” a tutela del licenziato (individualmente) restino a carico del datore di lavoro (e fuori da tale rete, ahimé, poco niente). Perciò forse sarebbe stato opportuno lasciare aperto un varco in tal senso.
Mi limito poi a segnalare, con spunto del giuslavorista Prof. Avv. Pietro Ichino (https://www.pietroichino.it/?p=50758), che anche sul piano giuridico tale scelta non era obbligata. Ad esempio, in Francia (Paese per molti aspetti giuridicamente affine) il Giudice delle Leggi ha deciso in senso opposto, stabilendo che è illegittima una norma che fa leva anche sulle dimensioni dell’azienda invece che sulla sola anzianità di servizio per determinare la misura dell’indennità dovuta in caso di licenziamento illegittimo (Conseil Constitutionnel, 5 agosto 2015, decidendo sulla Loi pour la croissance, l’activité et l’égalité des chances économiques n. 2015-715, art. 266).
– Sono cambiati i tempi –
Da ultimo, una piccola considerazione. Mi ha stupito l’attenzione relativamente scarsa del dibattito pubblico per questa sentenza. Una volta la bocciatura da parte della Consulta di una norma in tema di licenziamenti avrebbe suscitato un clamore molto maggiore.
Saranno felici quegli interpreti secondo i quali la politica si accanirebbe con le proprie eccessive attenzioni sul diritto del lavoro proprio quando non riesce ad ottenere risultati incidendo, per così dire, direttamente sul piano economico. Se fosse vera anche la correlazione inversa allora dovremmo sentirci ottimisti.
Tuttavia penso che la realtà sia un’altra e cioè che sono cambiate le “narrazioni” della politica e con esse le sue bandiere.
Alberto Lodi says
Si tratta di una sentenza relativa ad un tema molto importante e, in effetti, stranamente se ne sta parlando davvero poco. Da un lato mi sembra condivisibile la preoccupazione della Corte per cui, in caso di lavoratori con scarsa anzianità di servizio, l’indennizzo legato solo a tale parametro rischia di essere troppo basso, non rappresentando una tutela sufficiente. Dall’altro lato, però, legare l’indennizzo a tale coefficiente, come avviene in Francia, avrebbe senza dubbio garantito maggiore certezza del diritto, minore discrezionalità giudiziale e,quindi, la tanto agognata prevedibilità della decisioni giudiziarie. Quest’ultima, in effetti, fornendo più certezze agli imprenditori/datori di lavoro stimola maggiori investimenti e assunzioni, con grandi vantaggi per il mondo del lavoro nel suo complesso. Non è detto poi che il giudice del lavoro abbia sempre la preparazione e le conoscenze per valutare adeguatamente gli altri parametri che sono stati aggiunti, come il numero dei lavoratori e le dimensioni dell’impresa, ed in particolare la loro influenza sulla dimensione dell’indennizzo. Sono d’accordo con il fatto che, in un auspicabile futuro in cui i centri per l’impiego dovessero funzionare bene e le tutele contro la disoccupazione dovessero divenire adeguate, in effetti non si potrebbe probabilmente più parlare di inadeguatezza di un simile sistema di calcolo dell’indennizzo. Credo però che, in tale evenienza, la Consulta potrebbe sicuramente cambiare idea,come già avvenuto in passato su diversi argomenti. Infine, quanto al rischio di travalicamento delle decisioni giudiziarie in valutazioni politiche, temo che in certi settori sia davvero difficile evitarlo, soprattutto nel caso del giudice delle leggi. In definitiva, credo che questa decisione presenti vantaggi e svantaggi, ma che in ogni caso potrà essere rimeditata.
Avv. Michele Mancini says
Grazie per il commento e la riflessione, con cui concordo in linea di principio. Chiaro però che chi intendesse ripristinare in futuro il meccanismo dell’automatismo legato all’anzianità lo farebbe con la strada molto in salita. Infatti dovrebbe riuscire a far proseguire i lavori parlamentari nonostante il chiaro contrasto con un precedente della Corte Costituzionale e poi vedrebbe la nuova norma restare in bilico fino a che qualche lavoratore licenziato non la impugnasse in un giudizio e la Consulta non decidesse di nuovo. Insomma, questo rende a mio avviso molto improbabile che il Legislatore riproponga quella formula, cosicché di fatto la Corte probabilmente non avrà modo di confrontarsi con la specifica questione per molto tempo.